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—  Non ti avevano detto che quell’uomo era morto?

—  Sì — rispose Sparviero. — Me l’avevano detto.

E non parlarono più.

Quella notte il mare fu pieno di fuoco. Le onde brusche sollevate dalla prua della Vistacuta e il movimento di ogni pesce nell’acqua della superficie erano vivi di luce. Arren sedeva col braccio appoggiato alla frisata e la testa china sul braccio, e guardava quelle curve e quelle spirali di splendore argenteo. Immerse la mano nell’acqua e la ritrasse, e la luce defluì lieve dalle sue dita. — Guarda — disse, — anch’io sono un mago.

—  È un dono che non possiedi — replicò il suo compagno.

—  Ti sarò molto utile, se non lo possiedo — osservò Arren, guardando l’irrequieto scintillio delle onde, — quando incontreremo il nostro nemico.

Perché aveva sperato — l’aveva sperato fin dal primo momento — che la ragione per cui l’arcimago aveva scelto lui, e lui solo, per quel viaggio, fosse un potere i

In realtà sarebbe venuto il momento in cui avrebbe potuto e dovuto mettere la corona di suo padre e governare come principe di Enlad. Ma adesso gli sembrava una cosa di poco conto, e la sua patria pareva piccola e remota. Non c’era slealtà, in quel pensiero. La sua lealtà era diventata più grande, si era rivolta verso un modello più grande e una più grande speranza. Aveva imparato anche a conoscere la propria debolezza, e a servirsene per misurare la propria forza; e sapeva di essere forte. Ma a cosa serviva la forza se non aveva nessun dono, se non aveva da offrire al suo signore altro che il proprio servizio e il proprio amore costante? Sarebbero stati sufficienti, là dove stavano andando?

Sparviero disse soltanto: — Per vedere la luce di una candela è necessario portarla in un luogo buio. — Arren cercò di trovare conforto in quelle parole: ma non gli sembravano molto consolanti.

Il mattino dopo, quando si svegliarono, l’aria era grigia, e l’acqua era grigia. Sopra l’albero, il cielo si ravvivò assumendo l’azzurro di un opale, perché la coltre di nebbia era bassa. Per gli uomini del nord, come Arren di Enlad e Sparviero di Gont, la nebbia era gradita, come una vecchia amica. Cingeva dolcemente la barca, e loro non potevano vedere lontano; e per loro era come trovarsi in una stanza nota, dopo molte settimane di spazio luminoso e deserto e di vento fortissimo. Stavano ritornando al loro clima, e ormai, forse, erano alla stessa latitudine di Roke.

Settecento miglia a est delle acque ammantate di nebbia dove navigava la Vistacuta, la chiara luce del sole brillava sulle foglie degli alberi del Bosco Immanente, sulla verde corona del Colle di Roke, e sugli alti tetti d’ardesia della Grande Casa.

In una stanza della torre meridionale, un laboratorio dei maghi ingombro di storte e alambicchi e grandi bottiglie panciute dal collo ritorto, di fornaci dalle pareti robuste e di minuscoli fornelli, di tenaglie, mantici, supporti, pinze, provette, mille cassette e fiale e barattoli con etichette scritte in hardese o in rune più segrete, e tutti gli altri attrezzi dell’alchimia, della vetreria, della metallurgia e delle arti della medicina, in quella stanza, fra i tavoli e i banchi ingombri, stavano il Maestro delle Metamorfosi e il Maestro Evocatore di Roke.

Il Maestro delle Metamorfosi, che aveva i capelli grigi, teneva tra le mani una grande pietra simile a un diamante grezzo. Era un cristallo di rocca, e all’interno era lievemente colorato d’ametista e di rosa ma limpido come l’acqua. Eppure, quando l’occhio guardava quella chiarità, vi trovava l’assenza della chiarezza, e non vi scorgeva i riflessi e le immagini di ciò che stava intorno ma soltanto piani e profondità sempre più remoti, fino a quando veniva guidato nel sogno e non trovava più una via d’uscita. Era la Pietra di Shelieth. Per molto tempo era rimasta in possesso dei principi di Way, talvolta come un semplice gingillo del loro tesoro, talvolta come un talismano contro l’inso

Eppure la verità varia con l’uomo.

Perciò il Maestro delle Metamorfosi, reggendo nelle mani la pietra e scrutando nelle infinite profondità pallide e scintillanti attraverso la superficie irregolare, parlava a voce alta dicendo ciò che vedeva: — Vedo la terra, come se fossi sul monte O





Depose la pietra sul sostegno d’avorio e si scostò. Il suo volto mite era teso. Chiese: — Dimmi cosa vedi tu.

Il Maestro Evocatore prese tra le mani il cristallo e lo rigirò lentamente, come se cercasse sulla ruvida superficie vitrea un varco per vedere all’interno. Lo rigirò a lungo, con espressione intenta. Alla fine lo posò e disse: — Maestro delle Metamorfosi, vedo ben poco. Frammenti che non formano un tutto.

Il Maestro dai capelli grigi contrasse le mani. — E questo non è strano?

—  Perché?

—  I tuoi occhi sono spesso ciechi? — gridò il Maestro delle Metamorfosi, come se fosse incollerito. — Non vedi che c’è… — Balbettò parecchie volte, prima di poter parlare. — Non vedi che c’è una mano sopra i tuoi occhi, come c’è una mano sulla mia bocca?

L’Evocatore disse: — Sei troppo agitato, mio signore.

—  Chiama la Presenza della Pietra — replicò il Maestro delle Metamorfosi, dominandosi ma parlando con voce piuttosto soffocata.

—  Perché?

—  Perché te lo chiedo io.

—  Su, Maestro delle Metamorfosi, mi stai sfidando… come se fossimo due ragazzi davanti alla tana dell’orso? Siamo forse due bambini?

—  Sì! Di fronte a ciò che vedo nella Pietra di Shelieth, io sono un bambino… un bambino impaurito. Chiama la Presenza della Pietra. Devo implorarti, mio signore?

—  No — disse l’alto Maestro, ma aggrottò la fronte e voltò le spalle all’uomo più vecchio. Poi, spalancando le braccia nel grande gesto che dà inizio agli incantesimi della sua arte, levò la testa e pronunciò le sillabe dell’invocazione. Mentre parlava, una luce si accese entro la Pietra di Shelieth. Intorno, la stanza si oscurò e le ombre si addensarono. Quando le ombre furono cupe e la pietra lucentissima, il mago giunse le mani, alzò il cristallo davanti alla faccia e ne scrutò lo splendore.

Tacque per lunghi istanti e poi parlò. — Vedo la Fontana di Shelieth — disse a bassa voce. — Le vasche e i bacini e le cascate, le grotte sgocciolanti dalle cortine argentee, dove le felci crescono su banchi di muschio, le sabbie increspate, gli zampilli delle acque e il loro scorrere, lo sgorgare delle fonti dalle profondità della terra, il mistero e la dolcezza della sorgente, la fonte… — Tacque di nuovo, e rimase in silenzio per qualche tempo, e nella luce della pietra il suo volto era pallido come l’argento. Poi lanciò un grido inarticolato, lasciò cadere con uno schianto il cristallo e piombò in ginocchio, nascondendosi la faccia tra le mani.