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Sul campo di gioco della scuola, un pomeriggio di primavera, due ragazzi giocavano a palla. Erano di Shantih, Lev e il suo amico Timmo. Lei stava sotto il portico della scuola e li guardava, meravigliandosi di ciò che vedeva: l’allungo e la tensione delle schiene e delle braccia, l’abile slancio, i balzi del pallone nella luce. Sembrava che suonassero una musica silenziosa, la musica del movimento. La luce veniva da sotto i nembi temporaleschi, da ovest, sopra la baia di Songe, orizzontale e dorata; la terra era più luminosa del cielo. L’argine di terra dietro il campo era dorato, l’erba che lo copriva era brunita. La terra bruciava. Lev attendeva di afferrare un lancio lungo, con la testa all’indietro, le mani tese: e lei stava a guardarlo, sorpresa da quella bellezza.

Un gruppo di ragazzi della città girò intorno alla scuola per giocare al calcio. Gridarono a Lev di consegnare la palla, proprio mentre lui scattava, col braccio levato, per afferrare il lancio alto di Timmo. La prese, e rise, e gettò la palla agli altri.

Quando i due passarono davanti al portico, lei scese di corsa i gradini. — Lev!

L’orizzonte sfolgorava dietro di lui, e lui spiccava nero tra lei e il sole.

— Perché gli hai dato il pallone?

Non poteva scorgere il volto, controluce. Timmo, un ragazzo alto e bello, era rimasto un po’ indietro e non la guardava in faccia.

— Perché ti lasci tira

Finalmente Lev rispose. — Non è vero — disse. Quando Luz si avvicinò, vide che la stava guardando fissamente.

— Ti ha

— Loro vogliono fare una partita: noi stavamo solo passando il tempo. Il nostro turno l’avevamo fatto.

— Ma non te l’ha

Gli occhi di Lev erano scuri, il volto era scuro e rozzo, incompiuto. Sorrise: un sorriso dolce, sorpreso.

— Orgoglio? Sicuro. Se non l’avessi, terrei il pallone quando è il loro turno.

— Perché hai sempre una risposta pronta?

— Perché la vita è piena d’interrogativi.

Lev rideva, ma continuava a guardarla come se anche lei fosse stata un interrogativo, un interrogativo improvviso, senza risposta. E aveva ragione: lei non sapeva perché lo sfidasse così.

Timmo stava un po’ in disparte, a disagio. Alcuni dei ragazzi sul campo di gioco li stavano già guardando: due di Shantih che parlavano con una senhorita.

Senza commenti, i tre si allontanarono dalla scuola, lungo la via, in modo che dal campo non li vedessero.

— Se uno di loro parlasse a un altro come ha

— Per un pallone?

— Per qualunque cosa!

— Lo facciamo.



— Quando? Come? Ve ne siete andati e basta.

— Veniamo tutti i giorni in città, a scuola — disse Lev. Non la guardava, ora, mentre camminavano fianco a fianco, e il suo volto era il solito: un comune volto di ragazzo, ostinato e imbronciato. In un primo momento Luz non capì cosa intendeva, e quando comprese non seppe cosa replicare.

— I pugni e i coltelli sono il meno — disse Lev; e forse sentì un tono pomposo nella propria voce, una specie di vanteria, perché si rivolse a Luz con una risata e una scrollata di spalle. — E neanche le parole sono un gran che!

Uscirono dall’ombra di una casa, nell’aurea luce orizzontale. Il sole era una chiazza liquida e indistinta fra il mare scuro e le nubi buie, e i tetti della città ardevano di un fuoco ultraterreno. I tre giovani si fermarono, guardando l’immane splendore e l’immane oscurità a occidente. Il vento del mare, odoroso di sale e di spazi e di fumo di legna, spirava freddo sui loro volti.

— Non vedi? — disse Lev. — Puoi vederla: puoi vedere ciò che dovrebbe essere, ciò che è.

Lei vide, con gli occhi di lui: vide lo splendore, la città che avrebbe dovuto essere, e che era.

Quel momento si spezzò. La luminosa foschia ardeva ancora tra il mare e la tempesta, la città si stagliava ancora dorata e minacciata sull’eterna riva; ma c’era gente che scendeva per la via dietro di loro, parlando e gridando. Erano ragazze di Shantih, che si erano trattenute a scuola per aiutare le maestre a pulire le aule. Si affiancarono a Timmo e Lev e salutarono Luz gentilmente ma — come aveva fatto Timmo — con aria guardinga. Per andare a casa lei doveva svoltare a sinistra, verso il centro della città; loro a destra, su per le alture, per la strada del paese.

Mentre scendeva per la via scoscesa, Luz si voltò indietro a guardarli. Le ragazze della città deridevano quelle di Shantih perché portavano i calzoni: ma si confezionavano go

— Cazzo! — disse, e si avviò a grandi passi con la lunga go

E materializzandosi dal nulla come un cose, e al pari di questo gobba, con gli occhietti lucidi e vagamente piumosa, apparve la sua due

Ma Luz non rallentò per quella povera do

Perfino un abitante di Shantih era più libero di lei. Perfino Lev, che non voleva azzuffarsi per un pallone ma che sfidava la notte quando scendeva dall’orlo del mondo, e rideva delle leggi. Perfino Southwind, che era così mite e taciturna… Southwind poteva tornare a casa con chi voleva, mano nella mano, attraverso i campi, nel vento della sera, correndo per precedere la pioggia.

La pioggia tamburellava sulle tegole della soffitta, dove lei si era rifugiata quel giorno, tre a

Tre a

Una prigione. Tutta Victoria era una prigione, un carcere. E non c’era una via d’uscita. Non c’era un posto dove andare.