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L’undice

Per lei fu un sollievo raddrizzarsi e togliere le mani dal freddo tagliente dell’acqua. — Cos’è?

— Guarda — disse il ragazzetto, bisbigliando e tendendo la mano aperta. Sul palmo stava un esserino, un rospetto color ombra, con le ali. Tre occhi d’oro, grandi come capocchie di spillo, fissavano immobili: uno Asher, due Luz.

— Un cosè.

— Non ne avevo mai visto uno così da vicino.

— È venuto da me. Stavo scendendo con i cesti, e lui è volato dentro uno, e ho teso la mano e lui c’è salito.

— Credi che verrà da me?

— Non so. Tendi la mano.

Luz tese la mano accanto a quella di Asher. Il cosè tremolò e per un momento fu un vibrare di fronde o di piume; poi, con un salto o un volo troppo svelto perché l’occhio lo seguisse, si trasferì sul palmo di Luz, e lei sentì la stretta di sei minuscole zampe calde e robuste.





— Oh, come sei bello — disse a bassa voce alla bestiola. — Sei bello. E io potrei ucciderti, ma non potrei tenerti…

— Se li metti in gabbia, muoiono — disse il ragazzetto.

— Lo so.

Il cosè stava assumendo un colore azzurro, il celeste puro del cielo tra le vette della Catena Orientale nei giorni di sole invernale come quello. I tre occhi d’oro scintillavano. Le ali, luminose e traslucide, si schiusero, facendo trasalire Luz: il lieve movimento della sua mano lanciò l’esserino in una planata verso l’alto, oltre l’ampiezza del fiume, verso est, come una scheggia di mica nel vento.

Luz e Asher riempirono i cesti con le nere vongole pesanti e frangiate, e risalirono il sentiero verso l’abitato.

— Southwind! — gridò Asher, trascinando il cesto. — Southwind! Qui ci sono i cosè! Uno mi è venuto sulla mano!

— Certo che ci sono — disse Southwind, scendendo in fretta il sentiero per aiutarli. — Quante vongole avete preso! Oh, Luz, le tue povere mani! Vieni a scaldarti: nella baita c’è caldo, Sasha ha portato un altro carico di legna col carretto. Credevi che qui i cosè non ci fossero? Non siamo poi tanto distanti da casa!

Le baite — nove, fino a quel momento, più altre tre quasi terminate — sorgevano sulla riva sud del fiume, dove si allargava in un laghetto, sotto i rami di un unico alberanello gigantesco. Loro prendevano l’acqua dalle piccole cascate all’inizio del laghetto, e si lavavano e facevano il bucato alla fine, dove il fiume si restringeva di nuovo prima di discendere verso il Rocciagrigia. Chiamavano la loro colonia Airone, o Lago dell’Airone, in onore dei due animali grigi che vivevano sull’altra riva, indisturbati dalla presenza degli umani, dal fumo dei loro fuochi, dal chiasso del loro lavoro, dal loro andirivieni, dal suono delle loro voci. Eleganti, silenziosi, con le zampe lunghe, gli aironi cercavano cibo dall’altra parte dall’ampio laghetto scuro; qualche volta si soffermavano nell’acqua poco profonda a guardare gli umani con occhi limpidi, tranquilli, incolori. A volte, nelle fredde sere prima di una nevicata, danzavano. Mentre Luz, Southwind e il ragazzetto svoltavano verso la baita, Luz vide gli aironi presso le radici del grande albero, uno girato a osservarli e l’altro con l’affusolata testa voltata all’indietro per scrutare la foresta. — Questa notte danzera


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