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Il suo compagno obbedì.

«Abbiamo un elicottero sul tetto», disse Lisa.

Nel giro di pochi secondi, stavano tutti correndo. Gray sosteneva Painter, mentre Mosi aiutava Brooks. Lisa, Fiona e Marcia li seguivano.

«Dov’è Gunther?» chiese Fiona.

Le rispose Brooks: «Se n’è andato con sua sorella. Non voleva essere seguito da nessuno».

Non c’era tempo di cercarlo. Gray indicò l’ascensore. Il gruppo di Monk aveva incastrato le porte con una sedia trovata in corridoio, per evitare che qualcuno potesse usarlo per seguirli.

Si accalcarono nella cabina.

Lisa premette il bottone del sesto piano. L’ascensore cominciò a salire lentamente.

«Ho avvisato il nostro uomo all’eliporto», disse Monk. «Non sa pilotare, ma sa come girare una chiave. Scalderà i motori».

«La bomba», disse Gray, rivolgendosi a Lisa. «Che cosa ci dobbiamo aspettare?»

«Se è come quella dell’Himalaya, sarà una bella esplosione. Ha

Gray ripensò ai fusti immagazzinati al piano inferiore…

L’ascensore continuò a salire, passando il piano terra, che era mortalmente silenzioso.

Painter si mosse. Non era ancora in grado di sostenersi da sé, ma guardò negli occhi Gray. «La prossima volta… ci vai tu, in Nepal… da solo.»

Gray sorrise: sì, Painter era tornato.

Ma per quanto tempo?

L’ascensore raggiunse il sesto piano e si aprì.

«Un minuto», li informò Marcia. Aveva la presenza mentale per tenere conto del tempo.

Salirono di corsa le scale del tetto e trovarono l’elicottero ad aspettarli, con le pale in movimento.

Una volta sotto i rotori, Gray passò Painter a Monk. «Fai salire tutti a bordo.»

Lui corse dall’altro lato e si mise al posto di pilotaggio.

«Quindici secondi!» gridò Marcia.

Gray accelerò i motori. Le pale stridevano. Tirò il collettivo e il velivolo staccò i pattini dal tetto.

A che quota dovevano portarsi?

Regolò l’inclinazione delle pale e spinse ancora di più i motori.

Mentre salivano rapidamente, Gray fece una leggera imbardata e studiò l’area circostante il palazzo. Vide Jeep e motociclette che si allontanavano a tutta velocità, in ogni direzione.

Marcia cominciò un conto alla rovescia: «Cinque, quattro…»

Non era del tutto preciso.

D’un tratto, una luce accecante esplose sotto di loro, come se si stessero sollevando dal sole. Ma l’effetto più fastidioso era il silenzio assoluto. Incapace di vedere, Gray si sforzò di mantenere in volo l’elicottero. Però era come se l’aria fosse svanita. Sentiva che il velivolo stava perdendo quota.

Poi la luce scomparve, con un colpo fragoroso, cascando come un getto d’acqua.

All’improvviso, i rotori ritrovarono l’aria e l’elicottero sobbalzò per un lungo momento. Gray lo stabilizzò e si allontanò, virando, poi lanciò un’occhiata al punto in cui prima sorgeva il palazzo. C’era un gigantesco cratere, dalle pareti lisce, scavato di netto nella roccia e nel terreno. Era come se un possente Titano avesse sollevato il palazzo e gran parte dei giardini circostanti con un gigantesco cucchiaio da gelato.

Era scomparso tutto quanto. Non c’erano macerie, soltanto il vuoto.

I laghi e i ruscelli, tagliati a metà, riversavano cascate d’acqua oltre il bordo del cratere.





Più in là, Gray notò i veicoli che si fermavano e persone che si guardavano indietro. L’esercito di Khamisi era al sicuro. Il popolo zulù si era radunato ai confini, per riprendersi ciò che aveva perso molto tempo prima.

Gray li sorvolò con l’elicottero, girando attorno al cratere. Si ricordò del fusto di Xerum 525 mancante, quello destinato agli Stati Uniti. Accese la radio e cominciò ad attraversare una lunga catena di codici di sicurezza per contattare il comando della Sigma.

Fu sorpreso di sentirsi rispondere da Sean McKnight, l’ex direttore della Sigma. Gray si sentì raggelare per la paura. Che cosa ci faceva lì? C’era qualcosa che non andava.

McKnight lo informò brevemente di ciò che era accaduto. L’ultima notizia fu come un pugno nello stomaco.

Poi Gray chiuse la comunicazione, intontito e scioccato.

Monk si era sporto in avanti, notando la sua costernazione. «Che c’è?»

Si voltò. Doveva guardare in faccia il suo compagno per dirglielo. «Monk… si tratta di Kat.»

Washington, D.C.,

ore 18.47

C’erano voluti tre giorni, tre lunghi giorni per sistemare tutto quanto in Sudafrica.

Finalmente, erano atterrati al Dulles International, dopo un volo da Joha

Monk si sporse in avanti. «Cinquanta dollari se mi ci porti in meno di cinque minuti.»

L’accelerazione lo appiattì al sedile. Si cominciava a ragionare.

Entro due minuti comparve una serie di edifici di mattoni marroni. Sfrecciarono accanto a un cartello che segnalava il Georgetown University Hospital. Con grande stridore di pneumatici, entrarono nel parcheggio, rischiando di strisciare contro un’ambulanza.

Monk lanciò una manciata di banconote al tassista e saltò giù.

S’infilò di traverso nella porta automatica, impaziente perché ci metteva troppo ad aprirsi. Corse a capofitto lungo il corridoio, schivando pazienti e personale. Sapeva il numero della stanza nel reparto di terapia intensiva.

Passò di corsa davanti a una postazione di infermieri, ignorando una voce che gli strillava di rallentare.

Non oggi, dolcezza.

Monk girò l’angolo di volata e vide il letto. Continuò a correre, cadde mentre si avvicinava e scivolò sulle ginocchia fino alla fiancata del letto. Infine andò a sbattere piuttosto forte contro la sponda abbassata.

Kat lo fissò, con una cucchiaiata di gelatina verdognola tremolante sospesa davanti alla bocca.

«Sono venuto il prima possibile…»

«Ma neanche un’ora e mezzo fa abbiamo parlato al telefono satellitare.»

«Quello è solo parlare.»

Si alzò, si chinò sul letto e la baciò in bocca. Le bende erano avvolte attorno alla spalla sinistra e alla parte superiore del tronco, nascoste per metà da un camice blu da ospedale. Tre colpi d’arma da fuoco, un’emorragia copiosa, un polmone collassato, frattura della clavicola e milza lacerata.

Ma era viva.

E da

Il funerale di Logan Gregory si sarebbe tenuto tre giorni dopo.

Comunque, i due avevano salvato Washington da un attentato terroristico, uccidendo il sicario dei Waalenberg e bloccando il piano prima che fosse messo in atto. La Campana dorata era sepolta nei laboratori di ricerca della Sigma. La partita di Xerum 525 era stata ritrovata presso uno spedizioniere nel New Jersey. Ma quando le agenzie di intelligence statunitensi l’avevano rintracciata — compito non facile, data la vasta rete di aziende, società fasulle e affiliate di proprietà dei Waalenberg — quell’ultima partita di Xerum era ormai deteriorata. Rimasta troppo a lungo al sole, la sostanza era diventata inerte, per mancanza di una refrigerazione adeguata. E, senza quel combustibile, le Campane, anche quelle recuperate presso le altre ambasciate, non avrebbero mai più suonato.

Per fortuna.

Monk preferiva l’evoluzione all’antica. Lasciò scivolare la mano sulla pancia di Kat. Aveva paura di chiedere.

Non ce ne fu bisogno. La mano di lei coprì la sua. «Il bambino sta bene. I medici dicono che non ci dovrebbero essere complicazioni.»

Monk cadde di nuovo in ginocchio, appoggiando la testa sul ventre di Kat. Chiuse gli occhi, la cinse attorno alla vita, delicatamente, facendo attenzione alle ferite, e la strinse forte. «Grazie a Dio.»