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Esk sbirciò tra le assicelle. Non erano studenti, erano maghi. Assai importanti, a giudicare dalle loro vesti. E non c’era da sbagliarsi sulla figura che salì sul palco del conferenziere: somigliante a una marionetta dai fili troppo lenti aveva urtato pesantemente contro il leggio e se ne era scusato con aria assente. Era Simon. Nessun altro aveva occhi come due uova alla coque e un naso rosso a forza di soffiarsi. Su Simon il polline aveva sempre un effetto devastante.

Alla bambina ve

Quando i maghi si furono sistemati, Simon cominciò a parlare. Leggeva degli appunti e, ogni volta che s’inceppava su una parola, come un sol uomo, incapaci di trattenersi, i maghi la pronunciavano in coro per lui.

Dopo un po’, dal leggio si alzò un gessetto che prese a scrivere sulla lavagna alle sue spalle. Esk ne sapeva abbastanza sull’arte dei maghi per rendersi conto che quella era un’impresa eccezionale. Simon si trovava all’Università soltanto da due settimane e la maggior parte degli studenti non padroneggiavano la tecnica della Levitazione Leggera nemmeno al termine del loro secondo a

Il gessetto bianco scivolava e scricchiolava sulla superficie nera con l’accompagnamento della voce di Simon. Anche tenuto conto della balbuzie, lui non era un buon parlatore. Lasciava cadere gli appunti. Si correggeva. Intercalava di continuo con "uhm" e "ah". E, almeno per Esk, non diceva un granché. Le frasi filtravano fino al suo nascondiglio. Una era "il tessuto basilare dell’universo" e lei non capiva che cosa significava. A meno che lui volesse dire "denim" o forse "flanella". Quanto alla "mutabilità della matrice della possibilità", non le riusciva nemmeno di fare una congettura qualsiasi.

Certe volte sembrava affermare che nulla esisteva se non nel pensiero delle persone. E che se il mondo era lì, ciò era dovuto al fatto che la gente continuava a immaginarlo. Poi, però, pareva dicesse che c’erano tanti altri mondi, tutti quasi uguali e occupanti lo stesso luogo. Ma tutti separati dallo spessore di un’ombra di modo che, qualsiasi cosa accadesse, avrebbe avuto un qualche luogo dove accadere.

(Questo era comprensibile per Esk. Ne aveva avuto un mezzo sospetto da quando puliva il gabinetto dei maghi anziani. O piuttosto quando lo faceva la verga, mentre lei esaminava gli orinatoi. E, con l’aiuto di certi dettagli vagamente ricordati dei fratelli nella tinozza di stagno davanti al caminetto a casa, formulava la sua Teoria Generale sull’anatomia comparata. Il bagno dei maghi anziani era un luogo magico, con vera acqua corrente, belle piastrelle e, soprattutto, due grandi specchi d’argento fissati sulle pareti opposte. Così, guardandosi dentro uno, era possibile vedersi ripetuti ancora e ancora finché l’immagine diventava troppo piccola per scorgerla. Per Esk era stato quello il suo primo approccio all’idea dell’infinito. Per la precisione, aveva il sospetto che una delle Esk riflesse nell’ultima delle immagini, le facesse dei ce

C’era qualcosa d’inquietante nelle frasi dette da Simon. Sembrava ripetere, per la metà del tempo, che il mondo era reale come una bolla di sapone. O un sogno.

Il gesso continuava a scricchiolare sulla lavagna alle sue spalle. A volte Simon doveva fermarsi per spiegare i simboli ai maghi i quali, secondo la bambina, si eccitavano per delle frasi molto stupide. Poi il gessetto si rimetteva in movimento e descriveva sulla superficie nera un arco come una cometa, lasciandosi dietro una scia di polvere.

Fuori, la luce si spegneva nel cielo. Mano a mano che la stanza si faceva più buia, le parole tracciate col gesso rilucevano ed Esk aveva l’impressione che la lavagna non fosse scura. Ma che semplicemente non ci fosse affatto. Che fosse soltanto un buco quadrato tagliato nel mondo.

Simon continuava a parlare. Diceva che il mondo era fatto di cose infinitesimali, la cui presenza era solo determinata dal fatto che non erano lì, piccole sfere rotanti di nulla, messe insieme dalla magia per creare stelle farfalle diamanti. Tutto era fatto di vuoto.

Il buffo era che per lui questo era affascinante.

Esk era conscia che le pareti della stanza si facevano sottili e inconsistenti come il fumo, come se il vuoto che era in loro si estendesse per inghiottire qualsiasi cosa fosse che le definiva come pareti. E al loro posto non ci fosse altro che la familiare distesa, fredda vuota scintillante, con le lontane colline. E le creature, immobili come statue, che guardavano giù.

Adesso erano molto più numerose. Come le falene che si accalcano intorno a una luce.





Con una importante differenza. Anche vista da vicino, la faccia di una falena era affabile come quella di un coniglietto, paragonata agli esseri che osservavano Simon.

Poi entrò un servo ad accendere le lampade e le creature si dileguarono per lasciare il posto alle ombre perfettamente i

In un’epoca del recente passato qualcuno aveva deciso di ravvivare gli antichi corridoi dell’Università dipingendoli, spinto dalla vaga nozione che l’Istruzione Dovrebbe Essere Divertente. Non aveva funzionato. Nell’intero universo è un fatto risaputo che, per quanto i colori siano scelti con cura, la tinteggiatura istituzionale finisce per essere o verde vomito, marrone i

Da qualche parte nei corridoi suonò un campanello. Esk saltò giù leggera, afferrò la scopa e si mise a spazzare con impegno mentre le porte si spalancavano e i corridoi si riempivano di studenti. Che la superavano sciamando da entrambi i lati, come l’acqua intorno a una roccia. Per pochi minuti regnò una confusione estrema. Poi le porte si richiusero, i passi dei più pigri risuonarono in lontananza, ed Esk si ritrovò sola.

Desiderò, e non per la prima volta, che la verga potesse parlare. Le altre domestiche erano abbastanza cordiali, ma era impossibile parlare con loro. Non di magia, comunque.

La bambina stava arrivando alla conclusione che avrebbe dovuto imparare a leggere. In questa faccenda del leggere stava la chiave dell’arte dei maghi, che era imperniata tutta sulle parole. Per i maghi, i nomi erano lo stesso delle cose: cambiando il nome, si cambiava la cosa. O almeno, così le pareva…

Leggere. Questo voleva dire la biblioteca. Simon aveva detto che conteneva migliaia di libri. E fra tutte quelle parole, ce ne dovevano essere una o due che lei fosse in grado di leggere. Esk si mise la verga in spalla e si diresse con aria risoluta all’ufficio della signora Whitlow.

Era quasi arrivata, quando una parete disse: — Pss! — Esk la fissò a occhi spalancati e quella si rivelò essere la No

— Come te la passi, allora? — le domandò la No

— Che ci fai qui. No

— Sono stata dalla signora Whitlow a predirle il futuro. — La vecchia alzò con una certa soddisfazione un pacco di vecchi indumenti. Ma il sorriso le morì sulle labbra sotto lo sguardo severo di Esk.

— Be’, in città le cose sono diverse. La gente di città si preoccupa sempre dell’avvenire, dipende dal fatto che mangiano cibo non naturale. — Resasi a un tratto conto del suo tono querulo, aggiunse: — E comunque, perché non dovrei predire la fortuna?