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Fissò con calma Pioppo finché questi non rispose, con sforzo: «Non so nulla di quella gente».

Il giorno della morte di Ogion, il mago le era parso un uomo ancor giovane: un giovanotto alto e di bella presenza, con un mantello grigio e un bastone con gli anelli d’argento. Adesso si rese conto che non era giovane come le era sembrato, o che, se lo era, era come prosciugato, rinsecchito. Il suo atteggiamento e il suo tono di voce erano chiaramente sprezzanti, e Tenar rispose come avrebbe fatto Goha: «Certo. Vogliate scusarmi». Non voleva guai con il mago. Fece per avviarsi verso il villaggio, ma Pioppo le gridò:

«Aspettate!»

Tenar si fermò.

«Avete detto ‘un ladro e forse anche peggio’, ma gli insulti non costano niente, e la lingua di una do

«No», disse Tenar. «Gli uomini come voi non li ho mai capiti.»

Si voltò e fece per allontanarsi.

E allora sentì come un solletico lungo la schiena, e i capelli le si rizzarono sulla nuca. Si voltò di scatto, e vide che il mago levava verso di lei il bastone, sulla cui punta si raccoglieva un alone di scintille nere. A quel punto Pioppo aprì la bocca per parlare. Tenar pensò, in quel momento: poiché Ged ha perso la sua magia, ho pensato che l’avessero persa tutti gli uomini, ma mi sbagliavo!… Però in quell’istante una voce cortese disse:

«Oh, guarda chi c’è qui!»

Due degli uomini di Havnor mettevano piede in quel momento sulla strada. Arrivavano dal frutteto, dietro le spalle di Pioppo, e guardavano il mago e Tenar con aria di blanda superiorità, come se rimpiangessero di dover impedire a un mago di scagliare una maledizione contro una vedova di mezza età, ma, insomma, certe cose non si fa

«Signora Goha», la salutò l’uomo dalla camicia con i ricami in filo d’oro, rivolgendole un inchino.

Anche l’altro, quello con gli occhi chiari, si inchinò e sorrise. «La signora Goha», disse, «è una persona che, come il nostro re, porta apertamente il suo nome, senza timore. Ma visto che ora abita a Gont, forse preferisce che usiamo il suo nome locale. Tuttavia, conoscendo le sue gesta, vorrei poterle rendere omaggio; perché ha portato l’Anello che nessuna do

«Ah», disse Tenar, arrossendo compiaciuta, «c’è davvero ogni tipo di Potere, al mondo! Grazie.»





Il mago fissava la scena, immobile. Aveva chiuso le labbra senza pronunciare la fattura e aveva tirato indietro il bastone, ma sulla punta e negli occhi c’era ancora un nembo nero.

Lei non sapeva se il mago fosse già a conoscenza che era Tenar dell’Anello. Comunque, non aveva importanza. Non avrebbe potuto odiarla più di quanto non la odiasse già. La sua colpa era quella di essere una do

«Signore», disse Tenar, rivolta all’inviato del re, «qualsiasi cosa diversa dall’onestà e dalla sincerità sarebbe offensiva verso il re che voi rappresentate… e per cui agite, ora. Vorrei rendere onore al re e ai suoi messaggeri. Ma il mio onore sta nel silenzio, finché un amico non mi libererà dall’impegno. Sono sicura, signori, che a tempo debito vi farà sapere. Ma dategli il tempo, vi prego.»

«Certo», disse uno dei due. E l’altro aggiunse:

«Tutto il tempo che desidera. E la vostra fiducia, signora, ci onora più di ogni altra cosa».

Infine, Tenar fu libera di avviarsi verso Re Albi, scossa dal cambiamento della situazione, dall’odio del mago, dal proprio disprezzo verso di lui, dal terrore nello scoprire che poteva e voleva farle del male, dalla fine improvvisa di quel terrore grazie al rifugio offerto dagli uomini del re… gli uomini venuti — con una nave dalle bianche vele — dal rifugio stesso, la Torre della Spada e del Trono, centro del diritto e dell’ordine. Il suo cuore si sollevò per la gratitudine. Adesso c’era davvero un re su quel trono, e la principale gemma della sua corona era la Runa della Pace.

La faccia del più giovane dei due inviati le piaceva: intelligente e gentile, e le piacevano il modo in cui si era inginocchiato davanti a lei, lo stesso modo in cui ci si inchina davanti a una regina, e il suo sorriso, che aveva anche una punta di malizia. Si voltò e si guardò alle spalle. I due messaggeri salivano verso il castello, insieme con il mago Pioppo. Parevano conversare amichevolmente con lui, come se non fosse successo niente.

Questo smorzò un poco le sue speranze. D’altra parte, erano uomini di corte. Non dovevano litigare, giudicare o disapprovare. E Pioppo era un mago: il mago del loro ospite. Comunque, pensò Tenar, non avrebbero dovuto camminare e parlare con lui tanto amichevolmente.

Gli uomini di Havnor rimasero per vari giorni con il Signore di Re Albi, nella speranza, forse, che l’Arcimago cambiasse idea e si recasse da loro; tuttavia non lo cercarono, né fecero pressioni su Tenar per sapere dove si trovasse. Quando alla fine si allontanarono, Tenar si disse che doveva decidere un piano d’azione. Non aveva alcun vero motivo che la trattenesse laggiù, mentre aveva due buone ragioni per andarsene: Pioppo e Faina, che certamente non avrebbero lasciato stare né lei né Therru.

Eppure non riusciva a decidersi: le era difficile pensare di andarsene. Lasciando Re Albi, avrebbe lasciato anche Ogion, l’avrebbe perso, mentre, nel prendersi cura della sua casa e nel togliere le erbacce dalle sue cipolle, le pareva che fosse ancora presente. E pensò: «Non sognerò mai più il cielo, laggiù». Lassù, dove si era posato Kalessin, lei era Tenar; laggiù nella Valle di Mezzo era solo Goha. Perciò rinviò il momento di partire. Si disse: «Devo temere quei banditi, fuggire da loro? È ciò che vogliono. Devo andare e venire a loro ordine?» Disse a se stessa: «Aspetterò finché non avrò finito di fare il formaggio». Te

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