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Arren lasciò la Grande Casa col cuore e la mente colmi di stupore. Si ripeteva che era felice, ma gli sembrava che quella non fosse la parola più adatta. Si ripeteva che l’arcimago aveva visto in lui un uomo forte, un uomo del destino, e che lui era orgoglioso di quella lode. Perché no? Il mago più potente del mondo gli aveva detto «Domani salperemo per giungere alla fine del mondo», e lui aveva a

Scese le ripide e tortuose vie di Città Thwil, trovò al molo il capitano della sua nave e gli disse: — Domani partirò con l’arcimago, per recarmi a Wathort e allo Stretto Meridionale. Di’ al principe mio padre che quando avrò terminato questo servizio tornerò a casa, a Berila.

Il capitano della nave si oscurò in volto. Sapeva come sarebbe stato ricevuto dal principe di Enlad il latore di quella notizia. — È necessario che io abbia un messaggio scritto di tuo pugno, principe — disse. Arren riconobbe che la richiesta era giusta, e si affrettò ad allontanarsi poiché sentiva che doveva provvedere a tutto con sollecitudine. Trovò uno strano negozietto dove acquistò un pezzo d’inchiostro solido, un pe

—  È opera di antichi argentieri dell’isola di O. Vedo che sei un intenditore — replicò il mercante, guardando l’elsa (ma non il bellissimo fodero) della sua spada. — Costa quattro pezzi d’avorio.

Arren pagò senza discutere quel prezzo piuttosto alto: aveva nella borsa parecchi dei contrassegni d’avorio che nelle Terre Interne vengono usati come monete. L’idea d’inviare un dono a sua madre gli piaceva; l’atto di acquistarlo lo soddisfece; e quando uscì dalla bottega si portò la mano sul pomo della spada, con aria un po’ baldanzosa.

Suo padre gli aveva dato quella spada alla vigilia della partenza da Enlad. Arren l’aveva ricevuta sole

Non aveva mai usato la spada, né l’aveva usata suo padre, né il padre di suo padre. Da molto tempo c’era pace, a Enlad.

E adesso, nella via della città sconosciuta dell’isola dei Maghi, l’impugnatura della spada gli sembrò estranea, quando la toccò. Era un impaccio per la sua mano, e fredda. L’arma pesante gli intralciava il passo, lo faceva rallentare. E lo stupore che aveva provato era ancora in lui, ma si era raffreddato. Ritornò al molo, consegnò al capitano la spilla per sua madre, lo salutò e gli augurò un felice viaggio di ritorno. Quando si girò per allontanarsi coprì col mantello il fodero che racchiudeva l’antica arma, la lama mortale da lui ereditata. Non si sentiva più baldanzoso. — Che cosa sto facendo? — si chiese, mentre saliva per le strette viuzze, senza più affrettarsi, diretto verso la fortezza della Grande Casa, torreggiante al di sopra della città. — Perché non faccio ritorno in patria? Perché vado in cerca di qualcosa che non comprendo, in compagnia di un uomo che non conosco?

E non sapeva quali risposte dare a quegli interrogativi.

CITTÀ HORT





Nell’oscurità che precede l’alba, Arren indossò gli abiti che gli erano stati consegnati (indumenti da marinaio, lisi ma puliti) e percorse a passo svelto i silenziosi corridoi della Grande Casa fino alla porta orientale, scolpita nel corno e nei denti di drago. Il Portinaio lo lasciò uscire e gli indicò la strada che doveva prendere, con un lieve sorriso. Arren seguì la più alta via della città, e poi un sentiero che conduceva alle darsene coperte della Scuola, a sud, lungo la riva della baia, oltre i moli di Thwil. Riusciva appena a distinguere il cammino. Gli alberi, i tetti, i colli grandeggiavano come masse indistinte nell’oscurità; l’aria buia era immobile e molto fredda; ogni cosa taceva, e sembrava tenersi isolata e nascosta. Solo sopra il mare scuro, verso oriente, c’era una fioca linea di chiarore: l’orizzonte, che s’inclinava fuggevolmente verso l’invisibile sole.

Arren raggiunse la scalinata della darsena coperta. Non c’era nessuno, niente si muoveva. Stava abbastanza caldo, nell’ingombrante giubba da marinaio e nel berretto di lana; ma rabbrividì mentre attendeva, sui gradini di pietra, nell’oscurità.

Le darsene coperte spiccavano nere sopra l’acqua nera: e all’improvviso ne ve

—  Prendi il timone — disse l’arcimago, una figura agile e buia a prora. — E tieni salda la barca, mentre io alzo la vela.

Erano già fuori, sull’acqua, e la vela si apriva dall’albero come un’ala bianca, cogliendo la luce via via più viva. — Un vento dell’ovest per risparmiarci la fatica di uscire a remi dalla baia: è il dono di commiato del Maestro della Chiave dei Venti, senza dubbio. Sta’ attento, ragazzo: la barca è leggera, e vira facilmente. Così. Un vento dell’ovest e un’aurora serena per il Giorno dell’Equilibrio di primavera.

—  Questa barca è la famosa Vistacuta? — Arren aveva sentito parlare della barca dell’arcimago, in canti e leggende.

—  Sì — rispose l’altro, trafficando con le sartie. La barca sgroppava e virava, mentre il vento si rinforzava; Arren strinse i denti e cercò di tenerla in rotta.

—  Vira facilmente, mio signore, ma sembra animata da una volontà propria.

L’arcimago rise. — Lasciala fare: anche lei è saggia. Ascolta, Arren — disse, e s’interruppe, inginocchiandosi e fissando Arren. — Adesso io non sono un signore, e tu non sei un principe. Io sono un mercante, di nome Falco, e tu sei mio nipote, di nome Arren, e viaggi con me per imparare a navigare; e veniamo da Enlad. Da quale città? Una piuttosto grande, nell’eventualità che incontriamo un concittadino.