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Nessuno dei suoi compagni era stato autorizzato a fargli visita durante i primi mesi della malattia; e ora, mentre passava, alcuni si chiedevano: — Chi è, quello? — Un tempo era agile e leggero e forte: e adesso, claudicante per la sofferenza, procedeva esitante e non alzava il volto, che nella metà sinistra era bianco di cicatrici. Evitò coloro che lo conoscevano e coloro che non lo conoscevano, e si avviò direttamente al cortile della fontana. Là dove una volta aveva atteso Nemmerle, Gensher lo stava aspettando.

Come il vecchio arcimago, anche il nuovo era ammantato di bianco; ma come quasi tutti gli abitanti di Way e dello stretto Orientale, Gensher aveva la pelle nera, e i suoi occhi erano neri sotto le folte sopracciglia.

Ged s’inginocchiò e gli promise devozione e ubbidienza. Gensher rimase in silenzio per qualche istante.

—  So ciò che hai fatto — disse infine, — ma non ciò che sei. Non posso accettare la tua devozione.

Ged si alzò, e si appoggiò con una mano al tronco del giovane albero accanto alla fontana per sostenersi. Faticava ancora moltissimo a trovare le parole. — Devo lasciare Roke, mio signore?

—  Vuoi lasciare Roke?

—  No.

—  Cosa vuoi?

—  Restare. Imparare. A

—  Neppure Nemmerle ha potuto farlo… No, non ti lascerei andar via da Roke. Nulla ti protegge, qui, tra

—  Nei sogni, mio signore. — Dopo un po’, Ged proseguì, parlando con fatica e vergogna: — Nobile Gensher, io non so cosa fosse… ciò che è uscito dall’incantesimo e mi ha assalito…

—  Neppure io lo so. Non ha nome. Tu hai un grande potere i

Ged si sentiva in preda alle vertigini. Infine disse: — Sarebbe stato meglio che fossi morto.

—  Chi sei tu per giudicarlo, tu, l’uomo per cui Nemmerle ha dato la vita?… Qui sei al sicuro. Vivrai qui, e continuerai la tua preparazione. Mi dicono che sei intelligente. Continua il tuo lavoro. Fallo bene. È tutto ciò che puoi fare.

Così concluse Gensher; e all’improvviso sparì, com’è consuetudine dei maghi. La fontana zampillava nel sole, e per un po’ Ged la guardò e ne ascoltò la voce, pensando a Nemmerle. Una volta, in quel cortile, aveva avuto la sensazione di essere lui stesso una parola pronunciata dalla luce del sole. Adesso aveva parlato anche la tenebra: una parola che non poteva essere richiamata.

Lasciò il cortile e tornò nella sua vecchia stanza nella torre meridionale, che avevano lasciato vuota per lui. Rimase là, solo. Quando il gong chiamò a cena, andò; ma non parlò quasi con gli altri ragazzi alla lunga tavola, e non alzò la faccia verso di loro, neppure verso quelli che lo salutavano con maggior gentilezza. Perciò, dopo un giorno o due, tutti lo lasciarono in pace. Essere lasciato in pace era ciò che voleva, perché temeva il male che poteva fare o dire involontariamente.

Non c’erano né Veccia né Diaspro, e Ged non chiese di loro. Adesso i ragazzi che lui aveva guidato e sui quali aveva signoreggiato erano tutti più avanti di lui, a causa dei mesi che aveva perso; e durante la primavera e l’estate studiò insieme a ragazzi più giovani di lui. E non brillava in mezzo a loro, perché le parole di qualunque incantesimo, perfino il più semplice sortilegio d’illusione, gli uscivano a fatica dalle labbra, e le sue mani esitavano in ogni compito.





In autu

La notte prima della sua partenza per la torre, un visitatore entrò nella sua stanza: indossava un mantello da viaggio marrone e portava un bastone di quercia col puntale di ferro. Ged si alzò, vedendo il bastone da mago.

—  Sparviero…

Al suono della voce, Ged levò gli occhi: era Veccia, solido e squadrato come sempre; la faccia nera e camusa era più vecchia, ma il sorriso era immutato. Sulla sua spalla stava ra

—  È rimasto con me durante la tua malattia, e adesso mi duole separarmene. E ancor più mi dispiace separarmi da te. Ma sto per tornare a casa. Qui, hoeg! Va’ dal tuo vero padrone! — Veccia accarezzò l’otak e lo posò sul pavimento. La bestiola andò a sedersi sul pagliericcio di Ged e cominciò a forbirsi il pelo con la linguetta bruna e secca simile a una fogliolina. Veccia rise, ma Ged non riuscì neppure a sorridere. Si chinò per nascondere la faccia, accarezzando l’otak.

—  Credevo che non saresti venuto, da me — disse.

Non aveva pronunciato queste parole come un rimprovero, ma Veccia replicò: — Non ho potuto venire. Me l’aveva proibito il maestro erborista; e dall’inverno sono stato con lui nel bosco, isolato anch’io. Non ero libero, fino a quando mi sono guadagnato il bastone. Ascolta: quando anche tu sarai libero, vieni allo stretto Orientale. Ti aspetterò. Là ci sono piccole cittadine gaie, e i maghi sono accolti bene.

—  Libero… — mormorò Ged, e si sforzò un poco, cercando di sorridere.

Veccia lo guardò, non proprio come aveva fatto un tempo: con lo stesso affetto, ma forse con più magia. Disse gentilmente: — Non resterai legato per sempre a Roke.

—  Ecco… Ho pensato che forse potrò andare a lavorare col maestro nella torre, diventare uno di coloro che cercano i nomi perduti nei libri e nelle stelle, e così… così non farò altro male, anche se non farò molto bene…

—  Forse — disse Veccia. — Non sono un veggente, ma vedo davanti a te non già istanze e libri bensì mari lontani, e il fuoco dei draghi, e le torri delle città, e tutte le cose che vede un falco quando vola alto e lontano.

—  E dietro di me… Cosa vedi, dietro di me? — chiese Ged, e mentre parlava si alzò, così che la luce incantata accesa sopra di loro mandò la sua ombra contro la parete e il pavimento. Poi girò la faccia e disse balbettando: — Ma dimmi dove andrai, cosa farai.

—  Andrò a casa, a rivedere i miei fratelli e la sorella di cui mi hai sentito parlare. L’ho lasciata bambina, e presto riceverà il nome: è strano, pensarci! E così mi troverò un lavoro come mago, tra le piccole isole. Oh, vorrei restare a parlare con te, ma non posso: la mia nave parte stanotte e la marea sta già cambiando. Sparviero, se mai la tua strada ti porterà a Oriente, vieni da me. E se mai avrai bisogno di me, mandami a chiamare, chiamami col mio nome: Estarriol.

A quelle parole Ged alzò la faccia sfigurata e incontrò gli occhi dell’amico.

—  Estarriol — disse, — il mio nome è Ged.

Poi si dissero addio in silenzio, e Veccia si girò e si avviò per il corridoio di pietra, e lasciò Roke.