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Nancy Kress

Mendicanti e superuomini

A Miriam Grace Monfredo e Mary Stanton senza il cui incoraggiamento nei momenti difficili questo libro non sarebbe stato finito.

Prologo

2106

Il risuonare dell’allarme di sovrapposizione a priorità assoluta lacerò l’aria nel cavernoso camerino dietro le quinte. Drew Arlen, l’unico occupante, voltò di scatto la testa in direzione dell’olo-terminale accanto alla toeletta. Lo schermo registrò l’impronta della sua retina e apparve il volto di Leisha Camden.

— Drew, hai sentito?

L’uomo sulla carrozzella, la parte superiore del corpo eccessivamente muscolosa sulle gambe avvizzite, riprese a truccarsi gli occhi. Si sporse in avanti verso lo specchio della toeletta. — Sentito cosa?

— Hai visto il "Times" delle sei?

— Leisha, devo essere in scena fra quindici minuti. Non ho sentito proprio niente. — Udì il suono della propria voce farsi sgradevole e sperò che lei non lo notasse. Perfino dopo tutto quel tempo. Perfino alla semplice vista dell’ologramma di lei.

— Miranda e i Super… Miranda… Drew, ha

— Un’isola — ripeté Drew. Corrugò la fronte davanti allo specchio, si passò l’ombretto insistentemente.

— Non si tratta di una costruzione galleggiante. È una vera e propria isola che arriva giù fino alla piattaforma continentale. Ne eri al corrente?

— Leisha, ho un concerto fra quindici minuti…

— Lo sapevi, vero? Sapevi quello che stava facendo Miranda. Perché non me lo hai "detto"?

Drew voltò la carrozzella elettrica per fissare i capelli dorati di Leisha, i suoi occhi verdi, la sua pelle perfetta modificata geneticamente. Sembrava avere trentacinque a

Egli ribatté: — Perché non te lo ha detto Miranda?

L’espressione di Leisha si calmò. — Hai ragione. Avrebbe dovuto dirmelo Miranda e non lo ha fatto. Ci sono moltissime cose che non mi dice, vero, Drew?

Passò un lungo istante prima che Drew dicesse con un fil di voce: — Non è facile trovarsi fuori, tanto per cambiare, vero Leisha?

Lei rispose con altrettanta delicatezza: — Hai aspettato molto tempo per riuscire a dirmi una cosa simile, vero, Drew?

Egli distolse lo sguardo. Nell’angolo della immensa stanza qualcosa frusciò silenzioso: un topolino oppure un robot difettato.

Leisha disse: — Si trasferira

— Sì.

— Nessuno nella comunità scientifica è nemmeno al corrente del fatto che la nano-tecnologia abbia raggiunto queste capacità.

— Non lo ha fatto la nano-tecnologia di nessun altro.

Leisha disse: — Non mi lascera

Egli udì i complessi sottintesi nella voce di lei. La generazione di Inso

— Vero — rispose Drew. — Non lo fara

— Proteggera



Egli non rispose. Un tecnico infilò esitante la testa nell’arco della porta. — Dieci minuti, Signor Arlen, signore.

— Sì. Arrivo.

— Gran folla stasera, signore. Tutto strapieno.

— Sì. Grazie. — La testa del tecnico scomparve.

— Drew — disse Leisha, con voce incrinata. — Lei è per me una figlia quanto tu sei stato un figlio… Che cosa progetta di fare Miranda in quell’isola?

— Non lo so — disse Drew ed era allo stesso tempo una bugia e non, in modo che Leisha non avrebbe mai potuto comprendere. — Leisha devo essere sul palco fra nove minuti.

— Già — commentò stancamente Leisha. — Lo so. Tu sei il Sognatore Lucido.

Drew fissò ancora una volta la olo-immagine: l’amabile curva delle guance di lei, la pelle da Inso

— Già — disse lui. — Giusto. Io sono il Sognatore Lucido.

L’olo-palco si scurì ed egli tornò a truccarsi per lo spettacolo.

PARTE PRIMA

Luglio 2114

La preoccupazione per l’uomo stesso e il suo destino devono sempre costituire l’interesse primario di ogni sforzo tecnico, la preoccupazione per i grandi problemi irrisolti riguardanti l’organizzazione del lavoro e la distribuzione dei beni, così che le creazioni della nostra mente rappresentino per l’umanità una benedizione e non una maledizione.

1

Per alcuni di noi, ovviamente, niente è abbastanza.

Questa frase può essere presa in due modi diversi, no? Non voglio dire con questo che è vero il contrario. Non è vero nemmeno per i Vivi, indipendentemente dalle loro patetiche pretese di una "aristocratica vita di ozio". Già. Non esiste uno solo di noi che non sappia che è così. Noi Muli siamo sempre stati in grado di riconoscere la ribollente insoddisfazione. La vediamo quotidianamente nello specchio.

"Il mio QI non è stato potenziato come quello di Paul."

"I miei genitori non si sono potuti permettere le modificazioni genetiche che ha Aaron."

"La mia ditta non è diventata famosa come quella di Karen."

"La mia pelle non ha la grana fine come quella di Gina."

"Il mio collegio elettorale ha più pretese di quello di Luke. Quelle sanguisughe di votanti pensano forse che io sia una miniera inesauribile?"

"Il mio cane è meno all’avanguardia nelle modificazioni genetiche rispetto a quello di Stephanie."

Fu, in effetti, il cane di Stephanie che mi fece decidere di cambiar vita. So che effetto possono avere le mie parole. Non c’è nulla che riguardi l’inizio del mio servizio per l’Ente governativo di controllo degli Standard Genetici che non suoni ridicolo. Perché non cominciare proprio dal cane di Stephanie? Esso conferisce alla storia un certo brio satirico. Potrei parlarne a pranzo e a cena per interi mesi.

Sempre, ovviamente, che qualcuno vada ancora a pranzo o a cena.

Il brio satirico è una merce così deperibile!

Stephanie portò il suo cane nel mio appartamento nell’Enclave di Sicurezza di Bayview una domenica mattina di luglio. Il giorno prima avevo acquistato alcuni cesti di fiori alla BioForms di Oakland ed essi si riversavano a cascata fuori dalla ringhiera del terrazzo, un tumulto di azzurri dalle sfumature più varie, da superare quelle della Baia di San Francisco, sei piani sotto: cobalto, celeste, acquamarina, azzurro, grigio-azzurro, turchese, ceruleo. Io ero stesa sulla sdraio in terrazzo, mangiando biscotti all’anice e studiando i miei fiori. I geni modificati avevano modellato ogni bocciolo in un tubo che vibrava dolcemente, dotato di una estremità a cupola. I boccioli erano abbastanza lunghi. In verità, la mia terrazza spumeggiava di flaccidi e azzurri peni vegetali. David se n’era andato una settimana prima.

— Diana — disse Stephanie attraverso lo scudo a energia-Y che si estendeva nello spazio fra i battenti della portafinestra aperta. — Toc, toc.

— Come hai fatto a entrare nell’appartamento? — le chiesi, un po’ seccata. Non avevo dato a Stephanie il mio codice di sicurezza. Non mi piaceva a sufficienza.