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— Bene. E che niente si lascia corrompere dalla brama del potere quanto l’altruismo… No. E che niente corrompe l’altruismo… No. Oh, per amor di Dio, tu sai quello che intendo dire: scrivilo tu. Anche loro, lo sa

— Restare in contatto — disse Noi con gentilezza, citando uno dei temi centrali della filosofia odoniana.

— D’accordo, ma io sono stanca di essere in contatto. Se tu scrivi la lettera io la firmo, ma questa mattina non ho voglia di occuparmene. — Noi la guardava con un’espressione leggermente interrogativa o preoccupata. Laia disse, con irritazione: — Ho altro da fare!

Quando Noi se ne fu andato Laia si sedette alla scrivania e mosse le carte come per lavorare, perché si era sorpresa — spaventata — per le parole che aveva pronunciato. Non sapeva fare altro. Non aveva mai fatto altro. Era quello il suo lavoro: il lavoro della sua vita. I viaggi di propaganda e le riunioni e la piazza erano ormai fuori dalla sua portata; ma poteva sempre scrivere, e questo era il suo lavoro. E comunque, se lei avesse avuto altro da fare Noi l’avrebbe saputo: teneva in ordine l’agenda e le ricordava con tatto certe cose, come ad esempio la visita degli studenti stranieri proprio quel pomeriggio.

Oh, accidenti! I giovani le piacevano, e da uno straniero s’imparava sempre qualche cosa, ma adesso era stanca di facce nuove e di stare in mostra. Lei imparava dagli stranieri, ma gli stranieri non imparavano da lei: tutto quello che aveva da insegnare l’avevano imparato tanto tempo prima, dai suoi libri e dal Movimento. Venivano soltanto a guardare, come se lei fosse stata la grande torre di Rodarred o il canyon di Tulaevea. Un fenomeno, un monumento. Osservavano con timore mistico, adorante. Parlava loro con violenza: «Siate voi a pensare senza farvi dare l’imbeccata!». «Questo non è anarchismo, ma puro e semplice oscurantismo». «Non penserete mica che libertà e disciplina siano incompatibili, vero?». E quelli accoglievano le staffilate docili come agnellini, riconoscenti, come se lei fosse stata una dea-madre, l’idolo del grembo universale. Proprio lei! Lei che aveva minato i cantieri navali di Seissero e che aveva insultato il presidente del consiglio Inoilte di fronte a settemila persone, quando gli aveva detto che se mai avesse pensato di trarne un utile si sarebbe tagliato da sé i testicoli, li avrebbe fatti laminare in bronzo e poi li avrebbe venduti come ricordini; lei che aveva urlato, imprecato, preso a calci poliziotti e sputato contro preti, e che aveva orinato in pubblico in piazza del Campidoglio sulla grande targa di ottone che diceva QUI FU FONDATO LO STATO SOVRANO DELLA NAZIONE DI A-IO (ecc. ecc.)! Pppuuuhhh a tutto questo! E adesso era la no

— No — disse ad alta voce. — Non ci sarò -. Non si spaventava di parlare da sola, perché l’aveva sempre fatto. «Il pubblico invisibile di Laia», lo chiamava Taviri, mentre lei andava in giro per la stanza borbottando. — Non c’è bisogno che veniate, io non ci sarò — disse al suo pubblico invisibile. Aveva appena deciso cosa fare. Se ne sarebbe uscita. Per le strade.

Era irriguardoso deludere studenti stranieri. Era una stramberia tipica della senilità. Era molto poco odoniano. Pppuuuhhh a tutto questo! Che senso c’era a lottare tutta la vita per la libertà e poi finire col non averne neanche un briciolo? Se ne sarebbe uscita a fare una passeggiata.

«Che cos’è un anarchico? Colui che per scelta accetta la responsabilità della scelta».

Stava scendendo le scale quando decise, riluttante, di restare e ricevere gli studenti stranieri. Sarebbe uscita dopo.





Erano giovanissimi, serissimi, con occhi di cerbiatto, irsuti, affascinanti: venivano dall’emisfero occidentale, dal Benbili e dal regno di Mand. Le ragazze indossavano pantaloni bianchi, i ragazzi go

Uscì tranquilla dalla porta laterale, superò l’aiuola verde, e giunse in strada. Quella sottile striscia di acre terra cittadina era stata coltivata magnificamente e mostrava una buona messe di fagioli e ceëa, ma Laia non s’interessava alle coltivazioni. Certo, era apparso chiaro che le comunità anarchiche, anche durante i periodi di transizione, avrebbero dovuto operare in direzione di un’autosufficienza ideale, ma in che modo questa si dovesse ottenere in termini reali di terreno e di piante non era affar suo. C’erano contadini e agronomi, per questo. Affar suo erano invece le strade, le strade rumorose e puzzolenti, i selciati dove lei era cresciuta e dove aveva vissuto l’intera vita con l’eccezione di quei quindici a

Guardò con affetto la facciata della casa. Il fatto che fosse stata costruita per essere una banca dava agli abitanti attuali un piacere tutto particolare. Conservavano i sacchi di farina integrale nelle camere blindate, e ottenevano la stagionatura del sidro in barilotti collocati nelle cassette di sicurezza. Al disopra delle impeccabili colo

Fronteggiava una strada spaziosa e tranquilla; ma a un isolato di distanza aveva inizio la Temeba, un mercato all’aperto, un tempo famoso come borsanera di sostanze psicogene e teratogene e ora ridotto a mercato di frutta e verdura e di vestiti di seconda mano, e a miserando luogo di avvenimenti secondari. La sua vitalità crapulona era sparita, lasciando dietro di sé soltanto alcolizzati semiparalitici, drogati, storpi, ambulanti, bagasce da mezza tariffa, banchi di pegno, bische volanti, indovini, scultori del corpo e alberghetti infimi. Laia ritornava a Temeba come l’acqua alla sua condizione di equilibrio.

Non aveva mai temuto né disprezzato la città. Era la sua patria. Non ci sarebbero più stati bassifondi come quelli quando la rivoluzione avesse vinto. Ma sarebbe rimasta la miseria. Ci sarebbero stati miseria, spreco, crudeltà. Lei non aveva mai preteso di cambiare la condizione umana, di essere la mammina che si porta via tutte le durezze della vita dei suoi piccoli perché non si facciano più male. Tutto ma non questo. Purché la gente fosse libera di scegliere, non era affar suo se poi viveva in cloache e beveva insetticida. Purché questo non fosse affare degli Affari, fonte di profitto e mezzo di potere per altri. Cose, queste, che aveva intuito assai prima di sapere qualcosa di preciso. Prima di scrivere il suo primo libello, prima di lasciare Parheo, prima di conoscere il significato di «capitale», prima di oltrepassare i confini di via del Fiume dove giocava con gli altri bambini di sei a