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I giovani circolavano per i locali della Casa con piacevole immodestia, ma lei era troppo vecchia per farlo. Non voleva rovinare la colazione di qualcuno di loro mostrando la propria vecchiaia. E poi i giovani erano cresciuti col principio della libertà nell’abbigliamento e nel sesso e in tutto il resto, e lei no. Lei non aveva fatto altro che inventare la libertà: non era esattamente la stessa cosa.

Come, ad esempio, chiamare Asieo «mio marito». La parola li faceva sempre sobbalzare. Un buon odoniano, naturalmente, doveva usare «compagno». Ma chi aveva mai detto che lei dovesse essere una buona odoniana?

Ciabattò lungo il corridoio dirigendosi ai bagni. Mairo si stava lavando i capelli in un lavabo. Laia guardò ammirata quella lunga e liscia matassa intrisa d’acqua. Ormai usciva così di rado dalla Casa che non ricordava quando avesse visto per l’ultima volta una testa rispettabilmente rasata; ma la vista di una grande corona di capelli le dava piacere, un piacere intenso. Quante volte era stata derisa (Capellona, Capellona!), quante volte i poliziotti o i teppisti le avevano tirato i capelli, quante volte, a ogni cambio di prigione, un soldato l’aveva rasata con un ghigno sulla bocca? E poi i capelli erano ricresciuti, da lanugine a riccioli a ciocche a criniera… Tanto tempo prima. Per amor di Dio, proprio quel giorno doveva pensare al tempo andato?

Dopo che si fu vestita ed ebbe rifatto il letto, scese alla mensa. La colazione era buona, ma lei non era più riuscita a recuperare l’appetito dopo quel maledetto colpo apoplettico. Bevve due tazze di tè d’erbe, ma non riuscì a terminare il frutto che aveva preso. Da bambina aveva tanta voglia di frutta che la rubava; e poi, al Forte… Oh, ma per amor di Dio, piantala! Sorrise e rispose ai saluti e alle cortesi domande dei commensali e del grosso Aevi che quella mattina prestava servizio al banco. Era stato lui a tentarla con la pesca: — Ma guarda che meraviglia! L’ho tenuta in serbo per te. — E come avrebbe potuto rifiutare? Aveva sempre avuto una gran voglia di frutta, e non se ne era mai saziata. Una volta, quando aveva sei o sette a

Si lasciò alle spalle scale e autocommiserazione quando entrò nella stanza. Era una buona stanza. Era una buona cosa starsene da sola. Che sollievo. Sebbene, a rigore, non fosse proprio correttissimo. Alcuni dei giovani dei piani superiori vivevano in cinque in una stanza non più grande di quella. Le persone che volevano vivere nelle Case odoniane erano sempre più numerose di quante si fosse in grado di accogliere. Lei aveva quella grande stanza tutta per sé soltanto perché era una vecchia che aveva avuto un colpo apoplettico. E forse perché era Odo. Se non fosse stata Odo ma soltanto una do

Il suo segretario sarebbe arrivato entro un’ora per aiutarla a sbrigare il lavoro quotidiano. Ciabattò verso la scrivania, un pezzo bello e massiccio che le era stato regalato dalla cooperativa dei mobilieri di Nio perché una volta qualcuno le aveva sentito dire che il solo mobile che veramente desiderasse avere era una grande scrivania a cassetti con piano abbastanza spazioso… Accidenti, in pratica era tutta coperta di carte con relative note pinzate, perlopiù nella grafia minuta e chiara di Noi: Urgente. Province settentrionali. Consultare R.T.?

La sua grafia non era più stata la stessa, dopo la morte di Asieo. Ed era strano, a pensarci. Dopotutto, nei cinque a





Ma le aveva lasciato la rivoluzione.

«Che coraggio dimostri continuando a lavorare, a scrivere, in prigione, dopo una tale sconfitta per il movimento, dopo la morte del tuo compagno»: questo, le dicevano. Che razza di stupidi! Cos’altro si sarebbe potuto fare? Nerbo, coraggio… Ma cos’era, il coraggio? Non era mai riuscita a immaginarlo. Altri dicevano: non hai mai paura. Altri ancora: hai paura ma intanto continui. Ma cos’altro si sarebbe potuto fare se non continuare? C’era mai stata un’effettiva possibilità di scelta?

Morire significava soltanto continuare in una direzione diversa.

Se si voleva arrivare alla meta, era necessario continuare: questo intendeva con le parole «il vero viaggio è il ritorno»; ma non era mai stata più che un’intuizione, e in quel momento lei si trovava più che mai nell’impossibilità di razionalizzarla. Si curvò con troppa foga, tanto che gemette un poco allo scricchiolio delle ossa, e prese a rovistare in uno dei cassetti inferiori della scrivania. La mano le si posò su una cartellina rammollita dal tempo: la tirò fuori, avendola riconosciuta prima al tatto che alla vista. Era il manoscritto di L’organizzazione sindacale nel periodo rivoluzionario di transizione. Sulla cartellina Taviri aveva impresso il titolo e sotto aveva scritto il proprio nome: Taviri Odo Asieo, IX 741. Quella sì che era bella grafia, con lettere ben modellate, decisa, sicura. Ma lui aveva preferito servirsi di una fonostampante. L’originale era interamente fonostampato, e anche di alta qualità: esitazioni soppresse e idiotismi personali normalizzati. Non vi si percepiva quel suo modo di pronunciare la «o» dal fondo della gola secondo l’abitudine della costa settentrionale. Non c’era altro, di lui, che la sua intelligenza. Di Asieo non le restava che il nome scritto sulla cartellina. Non aveva conservato le sue lettere: sarebbe stato sentimentale. Non le riusciva di pensare a niente che avesse posseduto per più di qualche a