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"Non hai nulla da temere", si disse. "Perché sei così vile? Non puoi smarrirti, sei su una strada, e se non è quella per il paese basta che torni indietro per arrivare a casa. Non devi arrampicarti e quindi non incontrerai uno scorpione delle rocce, non camminerai nei boschi e quindi non finirai tra le rose velenose: di cosa hai paura? Non c’è niente che possa farti del male; sei assolutamente al sicuro, sulla strada".

Ma camminava atterrita, con gli occhi fissi su ogni sasso e ogni arbusto e ogni gruppo d’alberi; finché, superata la cresta di un pendio pietroso, vide i tetti coperti di foglie rosse e colse l’odore di fumo. Entrò a Shantih. Aveva un’espressione decisa e le spalle diritte, e si avvolgeva strettamente nello scialle.

Le casette erano sparse tra gli alberi e gli orti. Erano numerose; ma il paese non era raccolto e cinto di mura, protettivo, come invece la città. Era disperso, umile e umido nel quieto pomeriggio piovoso. Non c’era nessuno, nelle vicinanze. Luz scese lentamente la tortuosa via, cercando di decidere. Devo chiamare quell’uomo laggiù? Devo bussare a questa porta?

Un bambino le comparve davanti e la fissò. Aveva la carnagione chiara, ma era incrostato di fango dalla punta dei piedi alle ginocchia e dalle unghie ai gomiti, e chiazzato di altro fango qua e là. Sembrava pezzato, variegato. Gl’indumenti erano ugualmente striati e maculati d’una varietà di toni di fango. — Ciao — disse, dopo un lungo silenzio. — Chi sei?

— Luz Marina. E tu chi sei?

— Marius — disse lui, e fece per allontanarsi.

— Sai dove… dove abita Lev Shults? — Luz non voleva chiedere di Lev, avrebbe preferito affrontare uno sconosciuto: ma non ricordava altri nomi. Vera gliene aveva detti molti, lei aveva sentito nominare i «caporioni» da suo padre, ma ora non li ricordava.

— Lev chi? — chiese Marius, grattandosi un orecchio e aggiungendovi un altro strato di fango. Luz sapeva che tra loro quelli di Shantih non facevano uso dei cognomi: li usavano solo in città.

— È giovane e… — Luz non sapeva cosa fosse Lev: un capo? un padrone? un comandante?

— La casa di Sasha è laggiù — disse il bambino variegato, indicando un viottolo fangoso e invaso dalle erbacce; e sgattaiolò via, dileguandosi nella nebbia.

Luz strinse i denti e si avviò verso la casa indicata. Non aveva motivo di aver paura. Era soltanto un paesetto lurido. I bambini erano sporchi e gli abitanti erano contadini. Avrebbe riferito il messaggio a chi le avesse aperto la porta: dopodiché sarebbe finito tutto, e lei avrebbe potuto tornare alle alte e pulite stanze di casa Falco.

Bussò. Lev aprì la porta.

Luz lo riconobbe, sebbene non lo vedesse più da due a

— Sono Luz Marina Falco. Della città.

Lo sguardo luminoso cambiò, diventando più profondo. Lev si svegliò.

— Luz Marina Falco — disse. Il volto scuro e magro si animò; lui la guardò, guardò le sue spalle cercando i suoi accompagnatori, e la guardò di nuovo, con gli occhi colmi di emozioni: attenti, cauti, divertiti, increduli. — Sei qui… con…

— Sono venuta sola. Ho un… Devo riferirti…

— Vera — disse lui. Ora, su quel volto lampeggiante non c’erano più sorrisi ma tensione e passione.

— Vera sta bene. Anche gli altri. Riguarda voi, il paese. Questa notte è successo qualcosa, non so bene: tu lo sai?

Lui a





— Sono furiosi, e verra

Lev continuava a scrutarla. Non disse nulla. Solo allora, nel suo silenzio, Luz udì la domanda che non aveva rivolto a se stessa.

E la domanda la colse alla sprovvista. Era così lontana da una risposta che restò immobile a fissarlo, arrossendo di sgomento e di paura, e non riuscì ad aggiungere altro.

— Chi ti ha mandata, Luz? — chiese infine lui, gentilmente.

Era naturale che quella fosse la sua reazione, che credesse che lei mentiva o che Falco si era servito di lei per un trucco. Era naturale che pensasse così, che immaginasse che lei serviva il padre, non che lo tradiva. Luz non poté far altro che scrollare la testa. Aveva le gambe e le braccia informicolite e vedeva lampi di luce davanti agli occhi; si sentiva in preda alla nausea. — Ora devo tornare, — disse, ma non si mosse perché le ginocchia non le ubbidivano.

— Ti senti bene? Entra, siediti un momento.

— Mi gira la testa — disse Luz. La sua voce aveva un suono lamentoso, e lei se ne vergognava. Lev la fece entrare, e Luz si sedette su una sedia di giunchi accanto a un tavolo, sotto le travi del basso soffitto. Si tolse lo scialle dalla testa per liberarsi dal peso e dal calore; le guance cominciarono a rinfrescarsi e le luci smisero di balenarle davanti agli occhi. Lev le stava accanto, all’estremità del tavolo. Era scalzo, e portava soltanto un paio di calzoni; stava immobile e silenzioso. Lei non poteva vederlo in faccia, ma nella sua posa e nel suo silenzio non sentiva minaccia, collera o disprezzo.

— Ho corso — disse. — Volevo tornare in fretta: la strada è lunga, e mi ha dato le vertigini. — Poi si riprese, scoprendo che c’era in lei, sotto l’agitazione e la paura, un angolo silenzioso dove la sua mente poteva rifugiarsi e pensare. Pensò, e alla fine riprese a parlare.

— Vera vive con noi. In casa Falco. Lo sapevi? Io e lei stiamo insieme, ogni giorno. Parliamo. Io le dico quello che sento, quello che succede e lei mi dice… tante cose… Ho cercato di convincerla a tornare qui. Per avvertirvi. Non ha voluto, ha detto che ha promesso di non fuggire, che deve mantenere la parola. Perciò sono venuta io. Li ho sentiti parlare, Herman Macmilan e mio padre. Li ho ascoltati: mi sono messa sotto la finestra a origliare. Quello che ha

Lev scrollò il capo, intento, vigile.

— Non sto mentendo — disse Luz, freddamente. — Nessuno si serve di me. Nessuno, tra

Lev scrollò di nuovo la testa, sbattendo le palpebre come se fosse abbagliato. — No, non… Ma parla un po’ più adagio…

— Non c’è tempo. Devo tornare prima che qualcuno se ne accorga. Dunque, mio padre ha convinto il giovane Macmilan ad addestrare una squadra di altri giovani, figli di Padroni, come un esercito speciale da usare contro di voi. Da due settimane non parlano d’altro. Verra

— Di vista, credo — disse Lev. Era così diverso dall’uomo del quale Luz aveva appena pronunciato il nome e la cui immagine le riempiva la mente: il volto splendido e la figura muscolosa, il torace ampio, le gambe lunghe, le mani forti, la tunica pesante, i calzoni, gli stivali, la cintura, la giubba, il moschetto, la frusta, il coltello… Quest’uomo era scalzo: lei ne vedeva le costole e lo sterno sotto la pelle scura e liscia.

— Io lo odio — disse Luz, meno concitatamente, parlando dal piccolo e fresco rifugio dove poteva pensare. — La sua anima non è più grande di un’unghia. Dovresti avere paura di lui. Io ne ho paura. Ama far soffrire gli altri. Non cercate di parlargli, come fate sempre voi. Non vi ascolterà. È pieno di sé. La sola cosa che si può fare, con un uomo simile, è di colpirlo o fuggire lontano. Io sono fuggita… Mi credi? — Ora poteva chiederlo.