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Mentre fluttuavano lungo l'asse di Rama dopo aver lasciato l'ultimo portello stagno, Calvert si ritrovò, come spesso gli capitava, a recitare una scena di qualche vecchio film. Ogni tanto si chiedeva se non avrebbe fatto bene a cercar di guarire da quell'abitudine, ma in fondo era i

Questa volta la scena si svolgeva nel corso di una delle guerre del ventesimo secolo: Mercer era il sergente che guidava una pattuglia di tre uomini in un'incursione notturna nella terra di nessuno. Non era difficile immaginare che si trovavano sul fondo di un enorme cratere scavato da una bomba, naturalmente una bomba capace di scavare un cratere geometricamente perfetto e con le pareti a terrazze. La scena era illuminata a giorno da tre lampade di quarzo disposte a intervalli regolari in modo da non creare ombre nella cavità del cratere. Ma al di là della terrazza più lontana si stendeva un misterioso mare di tenebre.

Calvert cercava di immaginare cosa c'era laggiù: prima la piatta distesa circolare, larga più di un chilometro, divisa in tre parti uguali da tre scale a pioli di metallo, che a prima vista potevano esser scambiate per rotaie, coi gradini incassati, in modo tale che ci si sarebbe potuto scivolare sopra senza troppi intralci. Essendo identiche e disposte a distanza simmetrica, non c'era nessun motivo per sceglierne una piuttosto che un'altra; avevano scelto per pura comodità quella più vicina al compartimento stagno Alfa.

Sebbene i pioli fossero alquanto distanti l'uno dall'altro, questo particolare non presentava difficoltà. Anche al bordo del mozzo, a mezzo chilometro dall'asse, la forza di gravità era un trentesimo di quella terrestre. Sebbene ciascuno dei tre uomini portasse sulle spalle quasi un quintale fra viveri ed equipaggiamento, potevano muoversi senza fatica.

Il Comandante Norton e la squadra d'appoggio li accompagnarono lungo le corde-guida che avevano steso dal portello Alfa all'orlo del cratere. Poi, oltre la portata delle lampade a quarzo, si stendevano le tenebre di Rama. Alla luce danzante delle lampade dei caschi potevano vedere fino a poche centinaia di metri dalla scala.

E adesso, pensò Mercer, devo prendere la prima decisione. La scala devo salirla o scenderla?

Non era una domanda oziosa. Si trovavano ancora a gravità zero e il cervello poteva scegliere qualsiasi sistema di riferimento. Con un semplice sforzo di volontà, Mercer poteva convincersi che guardava verso una pianura orizzontale o su verso una parete verticale o oltre il ciglio di un dirupo ripidissimo. Molti astronauti si erano trovati a dovere affrontare gravi problemi psicologici avendo scelto le coordinate sbagliate all'inizio di un lavoro complicato.

Mercer decise di procedere in direzione frontale, carponi, perché qualsiasi altro sistema di locomozione sarebbe stato più difficoltoso. Inoltre così avrebbe potuto vedere meglio cosa c'era davanti. Quindi, per le prime centinaia di metri avrebbe immaginato di salire, e solo quando l'aumento dell'attrazione gravitazionale avrebbe impedito di continuare in quel modo avrebbe deviato di centottanta gradi il senso mentale della direzione.

Afferrò il primo piolo e si avviò lungo la scala. Era facile come nuotare sul fondo del mare, anzi più facile, mancando la resistenza dell'acqua. La tentazione di accelerare era molto forte, ma Mercer era troppo esperto per lasciarsi trascinare dalla fretta in una circostanza come quella.

Sentiva negli auricolari il respiro regolare dei suoi compagni, ed era sufficiente per aver la certezza che erano in ottima forma, senza sprecare tempo e energia per fare domande. Era anche tentato di voltarsi indietro, ma rite

I pioli distavano mezzo metro l'uno dall'altro e in principio Mercer li fece due per volta. Non trascurò comunque di contarli, e quando fu arrivato a duecento cominciò a provare una sensazione di peso. Il moto rotatorio di Rama cominciava a fare effetto.

Al quattrocentesimo piolo giudicò che il proprio peso doveva essere arrivato ai cinque chili, il che non costituiva un problema, ma diventava sempre più difficile credere di arrampicarsi quando si sentiva fermamente attratto all'insù.

Al cinquecentesimo piolo fece sosta. Sentiva i muscoli delle braccia reagire al lavoro cui non erano abituati, anche se era l'attrazione di Rama a fare la fatica maggiore e a lui bastava solo mantenersi nella stessa direzione.

— Tutto bene, Comandante — disse. — Siamo a metà scala. Joe, Will, tutto a posto?



— Io sto benone. Perché ti sei fermato? — disse Calvert.

— Anch'io sto bene — aggiunse Myron. — Ma state attenti all'effetto di Coriolis, comincia a crescere.

Anche Mercer se ne era accorto. Quando staccava la mano da un piolo aveva la tendenza a fluttuare verso destra. Sapeva benissimo che questo era un effetto della rotazione di Rama, ma sembrava come se una forza misteriosa volesse spingerlo via dalla scala.

Forse era venuto il momento di cominciare a procedere coi piedi in avanti, visto che il giù cominciava ad avere un senso. C'era però da correre il rischio di un momento di disorientamento.

— Attenzione. Mi capovolgo.

Afferrandosi saldamente al piolo fece forza con le braccia per compiere un arco di centottanta gradi, e si trovò accecato per un breve istante dalle lampade dei suoi compagni. Lontano, in alto, scorgeva un debole bagliore sull'orlo del dirupo. Sullo sfondo luminoso spiccavano le sagome di Norton e della squadra di appoggio che lo, osservavano attentamente. Parevano piccoli e lontanissimi, e lui agitò la mano per rassicurarli.

Lasciò poi la presa e si affidò alla pseudo-gravità di Rama ancora appena percettibile. La discesa da un piolo all'altro durava due secondi, lo stesso tempo che un corpo avrebbe impiegato sulla Terra per cadere da trenta metri.

Era un modo di avanzare così penosamente lento che Mercer pensò di affrettarlo spingendosi con le mani in modo da superare dieci o dodici pioli per volta, per appoggiare poi i piedi quando aveva l'impressione di scendere troppo velocemente.

Al settecentesimo piolo fece un'altra sosta e ruotò verso il basso la luce della lampada. Come aveva calcolato, la gradinata era a una cinquantina di metri.

Pochi minuti dopo, tutti e tre avevano raggiunto il primo gradino. Dopo mesi trascorsi nello spazio, provavano una strana sensazione nello stare in piedi su una superficie solida. Pesavano ancora meno di dieci chili, ma erano sufficienti a dare un senso di stabilità.

Il ripiano o piattaforma da cui aveva inizio la gradinata aveva un'ampiezza di dieci metri, e si curvava all'insù lateralmente, perdendosi nel buio. Mercer sapeva che formava un cerchio completo e che, se l'avesse seguita per cinque chilometri, sarebbe tornato al punto di partenza dopo aver circumnavigato Rama.

Ma con una forza di gravità così bassa una passeggiata del genere era impossibile se non procedendo a balzi giganteschi. E qui appunto si nascondeva il pericolo. La gradinata che scendeva allargandosi nel buio presentava una discesa fin troppo facile. Invece loro non dovevano mai lasciare l'alta ringhiera di metallo che la fiancheggiava. Saltare un gradino senza appoggio significava esser lanciati nello spazio e atterrare magari a qualche centinaio di metri. L'urto non avrebbe provocato da

Una bella discesa in toboga, pensò Mercer. La velocità finale, sia pur con una gravità così scarsa, sarebbe stata di parecchie centinaia di chilometri all'ora; probabilmente c'era modo di escogitare un sistema di rallentamento perché, a pensarci bene, quello era il sistema più rapido e facile per raggiungere la superficie interna di Rama. Ma prima era necessario provare usando la massima prudenza.