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Il frate raggiunse la vecchia porta della carbonaia, sollevò il paletto e aprì il chiavistello.
Diede una spallata e, cigolando, la porta si aprì. Dapprima fu investito dal fumo pungente, poi i mugolii gli fecero abbassare lo sguardo. «Mein Gott im Himmel…»
A pochi passi dalla porta, una do
Le toccò il collo in cerca di segni di vita, ma trovò soltanto sangue e devastazione. Era fradicia dalla testa ai piedi e fredda come la pietra.
Morta.
Poi sentì ancora i gemiti, provenienti dall’altro fianco della do
La scostò, trovando un bambino, mezzo sepolto sotto di lei, coperto di sangue anche lui.
Sebbene fosse livido per il freddo e altrettanto fradicio, il piccolo era ancora vivo. Il frate liberò il neonato dal cadavere. Le fasce bagnate che lo avvolgevano caddero con tutto il carico d’acqua che le appesantiva.
Era un maschio.
Il frate sfregò alacremente il corpicino e constatò che il sangue non apparteneva al neonato, ma soltanto alla madre.
Lanciò uno sguardo triste alla do
«Riposa», le sussurrò. «Te lo sei meritato.»
Padre Varick tornò sui suoi passi, verso la porticina. Asciugò il bambino dall’acqua e dal sangue. Il piccolo aveva capelli morbidi e sottili, bianchi come la neve. Non poteva avere più di un mese.
Con le cure di Varick, i gemiti del bambino dive
«Piangi, piccolo, piangi.»
In risposta a quella voce, il neonato dischiuse le palpebre gonfie. Varick fu salutato da occhi di un blu brillante e puro. D’altra parte, quasi tutti i neonati avevano gli occhi blu. Tuttavia Varick aveva la sensazione che quegli occhi avrebbero mantenuto quel colore celeste così ricco.
Avvicinò il piccolo a sé per scaldarlo. Gli cadde l’occhio su una macchia di colore. Was ist das? Girò il piede del bambino. Sul calcagno, qualcuno aveva disegnato un simbolo.
Anzi non era disegnato. Lo sfregò per esserne sicuro.
Era tatuato con inchiostro cremisi. Lo studiò. Sembrava una zampa di corvo.
Ma padre Varick aveva trascorso buona parte della sua gioventù in Finlandia. Riconobbe il simbolo per ciò che era effettivamente: una runa norrena. Non aveva idea di quale runa fosse o di che cosa significasse. Scosse la testa. Chi aveva commesso una tale sciocchezza?
Lanciò uno sguardo alla madre, aggrottando le sopracciglia.
Non importava, i peccati dei genitori non devono gravare sui figli. Finì di asciugare il sangue sulla sommità della testolina e infilò il bambino sotto la sua veste calda.
«Povero piccolo, che brutta accoglienza ti ha riservato il mondo.»
PRIMO
1. IL TETTO DEL MONDO
Himalaya,
campo base Everest, 5364 m,
ai giorni nostri,
16 maggio, ore 06.34
La morte cavalcava il vento.
Taski, il capo degli sherpa, aveva pronunciato quel verdetto con tutta la sole
La dottoressa Lisa Cummings lo inquadrò con la Nikon D-100 e scattò una foto. Taski era la guida del gruppo, ma era anche il soggetto dei test psicometrici di Lisa, un candidato perfetto per le sue ricerche.
Era andata in Nepal grazie a una borsa di studio per osservare gli effetti fisiologici di un’ascensione dell’Everest senza riserve d’ossigeno. Prima del 1978, nessuno aveva mai raggiunto la cima dell’Everest senza servirsi di ossigeno supplementare: l’aria era troppo rarefatta. Persino gli alpinisti esperti, pur aiutandosi con le bombole d’ossigeno, mostravano sintomi di affaticamento estremo, problemi di coordinazione, diplopia, allucinazioni. Si riteneva impossibile raggiungere la vetta di una montagna alta ottomila metri senza una riserva d’aria.
Poi, nel 1978, due alpinisti tirolesi realizzarono l’impossibile e arrivarono in cima, contando soltanto sui loro affa
La dottoressa Cummings non avrebbe potuto sperare in un migliore test di resistenza alla bassa pressione atmosferica.
Qualche tempo prima, sempre grazie a una borsa di studio, aveva concluso un’altra ricerca, durata cinque a
E così era finita sul tetto del mondo.
Lisa cambiò posizione per scattare un’altra foto a Taski Sherpa. Come molti altri fra la sua gente, Taski usava come cognome la denominazione del suo gruppo etnico.
L’uomo si allontanò dalle bandierine di preghiera, a
Ma non per gli altri membri del gruppo.
Espressioni di disappunto si diffusero tra gli scalatori, che fissavano il cielo blu e sgombro sopra le loro teste. La squadra di alpinisti, composta da dieci persone, aspettava da nove giorni una situazione meteorologica favorevole. Prima di quel momento, nessuno aveva avuto nulla da ridire. Per una settimana, il buon senso aveva imposto loro di aspettare, mentre imperversava una tempesta, causata da un ciclone in arrivo dal golfo del Bengala. L’accampamento era stato spazzato da un vento selvaggio, che, sfiorando i centosessanta chilometri orari, aveva fatto volar via una delle tende della cucina ed era in grado di buttare letteralmente a terra le persone; poi erano arrivate le violente nevicate, che raschiavano qualsiasi lembo di pelle scoperta come carta vetrata.
Ma quella mattina l’alba era splendente quanto le loro speranze. Il ghiacciaio Khumbu e i seracchi brillavano dei riflessi del sole. Su tutto galleggiava un Everest incappucciato di neve e circondato dalle sue sorelle, come a una festa nuziale in bianco.
Lisa aveva scattato un centinaio di foto, riprendendo le variazioni della luce in tutta la sua bellezza cangiante. Capiva finalmente i nomi locali dell’Everest: Chomolungma, la Dea Madre del Mondo, in cinese, e Sagarmatha, la Dea del Cielo, in nepalese.
Sospesa tra le nuvole, la montagna era davvero una dea, fatta di ghiaccio e strapiombi, e tutti loro erano andati lì per adorarla, per dimostrarsi degni di baciare il cielo. Non era costato poco: sessantacinquemila dollari a testa. Perlomeno, quella cifra comprendeva l’attrezzatura da campo, i portatori, gli sherpa e, naturalmente, tutti gli yak possibili e immaginabili. Si sentì echeggiare nella vallata il muggito di una femmina di yak, una delle due dozzine che assistevano la squadra di alpinisti. Le loro tende ornavano l’accampamento come palloncini rossi e gialli. A condividere quella scarpata rocciosa c’erano altri cinque accampamenti: tutti arrampicatori in attesa che gli dei della tempesta voltassero le spalle.