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«È questo il posto, dottoressa?» chiese Khamisi Taylor, sterzando per superare il letto di un ruscello asciutto, mentre la Jeep sollevava una nuvola di polvere che sembrava una coda di gallo. Diede un’occhiata alla do

La dottoressa Marcia Fairfield stava quasi in piedi al posto del passeggero, una mano stretta al bordo del parabrezza per tenersi in equilibrio. Indicò con l’altra mano. «Andiamo verso ovest, c’è un avvallamento profondo.»

Khamisi scalò le marce e scartò a destra. In quanto guardacaccia in servizio alla riserva di Hluhluwe-Umfolozi, doveva seguire il protocollo. Il bracconaggio era un reato grave, ma anche una realtà. Soprattutto nelle aree più remote del parco.

Anche la sua gente, anche i membri della tribù zulù, a volte seguivano le pratiche tradizionali. Gli toccava multare pure i vecchi amici di suo no

Arricchirsi alle spalle degli altri.

«Non puoi andare più forte?» incalzò la sua passeggera.

La dottoressa Marcia Fairfield era un’anziana biologa di Cambridge, molto rispettata, membro del progetto originale Operation Rhino, spesso definita la Jane Goodall dei rinoceronti. A Khamisi piaceva lavorare con lei. Forse era solo perché non era pretenziosa, a cominciare dalla giacca da safari, di un kaki sbiadito, fino ai capelli grigio-argento, raccolti in una semplice coda di cavallo.

O forse era la sua passione, come in quel momento.

«Se la femmina è morta partorendo, il piccolo potrebbe essere ancora vivo. Ma per quanto ancora?» Batté un pugno sul bordo del parabrezza. «Non possiamo perdere entrambi.»

Khamisi comprendeva perfettamente la sua irritazione. Dal 1970 la popolazione di rinoceronti neri era diminuita del novantasei percento in Africa. La riserva di Hluhluwe-Umfolozi cercava di porvi rimedio, come aveva fatto per i rinoceronti bianchi. Era lo sforzo di conservazione principale del parco.

Ogni rinoceronte nero era importante.

«L’abbiamo trovata con l’elicottero solo perché ha un rilevatore impiantato nel corpo», proseguì la dottoressa Fairfield. «Ma se ha già partorito non ci sarà modo di trovare il piccolo.»

«Non pensa che resterà vicino alla madre?» chiese Khamisi. Era stato testimone di un episodio simile. Due a

«Sai qual è il destino degli orfani. I predatori sara





Khamisi a

Superata la collina, il terreno si apriva in profonde gole solcate da ruscelli sottili. La vegetazione s’infoltiva: sicomori, trichilia emetica e xanthocercis. Era una delle poche aree umide del parco, anche una delle più remote, ben distante dalle solite piste dei cacciatori e dalle strade turistiche. Esclusivamente chi aveva un permesso poteva attraversare quella zona, sottostando a severe limitazioni: soltanto nelle ore diurne e senza poter pernottare. Il territorio si estendeva sino al confine occidentale del parco.

Khamisi scrutò l’orizzonte, mentre faceva scendere piano la Jeep dal pendio. A un chilometro e mezzo di distanza, il terreno era attraversato da un tratto di recinzione nera, alta tre metri, che divideva il parco da un’adiacente riserva privata. Spesso tali riserve condividevano i confini con un parco, offrendo ai turisti più ricchi un’esperienza più esclusiva. Ma quella non era una riserva privata normale.

Il parco di Hluhluwe-Umfolozi era stato fondato nel 1895 ed era la più antica riserva di tutta l’Africa. Quella confinante era la più antica riserva privata. Non solo, era ancora più antica del parco e apparteneva a una celebre dinastia del Sudafrica, il clan dei Waalenberg, una delle famiglie boere originarie, le cui prime generazioni risalivano al XVII secolo. La loro riserva era grande come un quarto del parco. Si diceva che pullulasse di animali selvatici. Non soltanto «i cinque grandi» — elefante, rinoceronte, leopardo, leone e bufalo cafro —, ma anche predatori e prede di ogni specie: coccodrillo del Nilo, ippopotamo, ghepardo, iena, gnu, sciacallo, giraffa, zebra, antilope d’acqua, cudù, impala, antilope reedbuck, facocero, babbuino. Si diceva che la riserva Waalenberg avesse inconsapevolmente dato protezione a un branco del raro okapi, ben prima che quel parente della giraffa fosse scoperto, nel 1901.

Ma c’erano sempre voci e storie legate alla riserva Waalenberg. Il parco era accessibile soltanto in elicottero o con un piccolo aeroplano. Le strade che un tempo vi conducevano erano state ormai riconquistate dalla natura. Gli unici visitatori, peraltro occasionali, erano importanti dignitari di ogni parte del mondo. Si diceva che Teddy Roosevelt vi fosse andato a caccia e persino che avesse modellato il sistema dei parchi nazionali degli Stati Uniti sulla riserva Waalenberg.

Khamisi avrebbe dato un occhio per trascorrervi una giornata. Ma quell’onore era riservato al capo guardacaccia di Hluhluwe. Un giro nella proprietà dei Waalenberg era uno dei vantaggi che si acquisivano rivestendo quell’incarico; e comunque richiedeva la firma di una dichiarazione di segretezza. Khamisi sperava di raggiungere quella vetta, un giorno.

Però non si faceva troppe illusioni.

Non con la sua pelle nera.

La sua origine zulù e la sua istruzione lo avevano aiutato a ottenere quel lavoro, ma anche dopo l’apartheid c’erano comunque dei limiti. Le tradizioni sono dure a morire, sia per i neri sia per i bianchi. Tuttavia, la sua posizione apriva un varco. Una delle tristi eredità dell’apartheid era che un’intera generazione di bambini della tribù era cresciuta con istruzione scarsa o nulla, subendo gli a

Che lo chiamassero pure Fat Boy, se serviva a qualcosa.

Nel frattempo…

«Ecco!» gridò la dottoressa Fairfield, facendo trasalire Khamisi e riportando la sua attenzione al tormentoso viaggio in fuoristrada. «Gira a sinistra, attorno a quel baobab, ai piedi della collina.»

Khamisi vide il gigantesco albero preistorico. Grandi fiori bianchi ricadevano tristi dalle estremità dei suoi rami. Alla sua sinistra, il terreno scompariva alla vista, digradando in una sorta di anfiteatro naturale. Khamisi vide il luccichio di uno specchio d’acqua, verso il fondo.

Un abbeveratoio.

Sorgenti di quel tipo costellavano il parco, alcune naturali, alcune artificiali. Erano i luoghi migliori per intravedere qualche animale selvatico e anche i più pericolosi da attraversare a piedi.

Khamisi fermò il fuoristrada accanto all’albero. «Da qui in poi dovremo camminare.»

La dottoressa Fairfield a