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Ma c’era un modo di trattare le formiche.

Il modo umano.

Il modo che Jon Webster gli aveva detto dopo diecimila a

Il veleno, pensò Jenkins. Il modo semplice. Il modo più semplice.

Solo che per usarlo era necessaria la chimica, e i Cani non la conoscevano.

Solo che per usarlo era necessario uccidere, e non si uccideva più.

Neppure le pulci si uccidevano, e i Cani erano tormentati oltre ogni misura dalle pulci. Neppure le formiche si uccidevano… e le formiche minacciavano di privare gli animali del mondo che era stato la loro culla e la loro casa.

Nessuno aveva più ucciso, per cinquemila a

Ed è meglio così, si disse Jenkins. È meglio perdere un mondo, che ricominciare a uccidere.

Si voltò, lentamente, e cominciò a scendere verso il fiume.

Homer sarebbe rimasto deluso, pensò.

Terribilmente deluso, sapendo che i webster non avevano alcun modo di trattare con le formiche…

epilogo

E accadde tutto in quel giorno, quello tra tutti i giorni, anche se Jenkins non avrebbe saputo dire in quale giorno…

Mentre Jenkins stava attraversando il prato, il Muro era crollato rovinosamente…

Jenkins sedeva sulla veranda della Casa dei Webster, e ricordava quel giorno lontano, molto lontano, nel quale l’uomo venuto da Ginevra aveva fatto ritorno alla Casa dei Webster, per dire a un cagnolino che anche Jenkins faceva parte della famiglia, era un Webster. E quello era stato un giorno d’orgoglio per lui, si stava ripetendo per la miliardesima volta Jenkins, un giorno d’orgoglio…

Jenkins stava attraversando il prato per unirsi ai piccoli topi di campo, per diventare uno di loro, per correre un poco insieme a loro nelle gallerie che avevano scavato tra l’erba. Lo faceva spesso, anche se non si trattava di una grande soddisfazione: i topolini erano creature stupide, che non capivano né si curavano di nulla; c’era però un certo calore in loro, una quieta sicurezza, un confortante senso di benessere… quiete e sicurezza, perché essi vivevano soli nel piccolo mondo del prato, e non c’era alcun pericolo, non c’era alcuna minaccia. Non era rimasto niente che potesse costituire una minaccia per loro. Perché erano rimasti loro soltanto… con l’unica compagnia dei pochi insetti e dei vermi che costituivano il loro cibo.

In passato Jenkins si era domandato più volte per quale motivo i topi fossero rimasti là, soli, mentre tutti gli altri animali avevano seguito i Cani in uno dei mondi delle ombre. Anche loro avrebbero potuto partire, naturalmente. I Cani li avrebbero portati con loro, ma in loro non c’era stato alcun desiderio di partire. Forse i topolini erano stati contenti, allora, del posto in cui si trovavano; o forse in loro c’era stato un senso della casa troppo radicato per permetter loro di partire.

I topi e me, pensava Jenkins. Perché anche lui avrebbe potuto partire. Avrebbe potuto partire anche adesso, se lo avesse voluto. In qualsiasi momento, avrebbe potuto partire. Ma, come i topi, lui non era partito, era rimasto. Lui non poteva lasciare la Casa dei Webster. Senza di essa, gli sarebbe mancata più della metà di se stesso.

Così lui era rimasto, e la Casa dei Webster sorgeva ancora. Anche se non ci sarebbe più stata, pensò Jenkins, se non fosse stato per lui. L’aveva conservata pulita e in ordine; l’aveva riparata tante volte. Quando aveva visto che una delle pietre cominciava a sgretolarsi, ne aveva scelto un’altra, e l’aveva modellata amorevolmente, e l’aveva sistemata con ogni cura al posto della vecchia; e se per qualche tempo era sembrata troppo nuova e troppo recente, come un’ospite aliena per l’antica casa, il tempo aveva messo rimedio a questo… ci avevano pensato il vento e il sole e le stagioni, e il lento operare del muschio e dei licheni.

Jenkins aveva falciato l’erba del prato ed era stato un fedele giardiniere per i cespugli e le aiuole fiorite. La siepe era sempre regolare e perfetta. Non c’era mai un granello di polvere sui mobili, i pavimenti e le finestre erano immacolati… la casa era ancora in piedi. Era ancora in condizioni abbastanza buone, si diceva Jenkins con soddisfazione, per alloggiare un webster, se ne fosse venuto uno. Anche se non c’era speranza che questo accadesse. I webster che erano andati su Giove non erano più webster, e quelli di Ginevra stavano ancora dormendo… se, in effetti, Ginevra e i webster che la città ospitava esistevano ancora.

Perché le Formiche erano ormai padrone del mondo. Avevano fatto del mondo una sola, immensa costruzione, o almeno lui presumeva questo, poiché non poteva esserne realmente sicuro. Ma per quello che lui sapeva, entro la portata dei suoi sensi di robot (ed erano sensi molto acuti, e giungevano lontano), non c’era niente nel mondo, all’infuori dell’immenso, insensato edificio che le Formiche avevano costruito. Anche se non era del tutto onesto definirlo insensato, pensava Jenkins. Era impossibile sapere a quale scopo esso potesse servire. Era impossibile sapere quale scopo le Formiche avessero nella loro mente.

Le Formiche avevano racchiuso il mondo intero in un solo, grande edificio, ma si erano fermate sulla soglia della Casa dei Webster, e anche il motivo di questa loro esclusione era imperscrutabile. Le Formiche avevano costruito tutt’intorno alla Casa, facendo della Casa dei Webster e degli acri di terreno libero che la circondavano una specie di cortile aperto all’interno della Costruzione… un circolo di dieci chilometri, che aveva al centro la collina sulla quale la Casa dei Webster sorgeva ancora.

Jenkins camminava sul prato, sotto i raggi del sole autu

Lui e i topi, pensava. E le Formiche, naturalmente. Ma le Formiche non contavano, in realtà, perché lui non aveva alcun contatto con loro. Malgrado i suoi sensi più acuti e le nuove capacità sensoriali inserite nel corpo che gli era stato donato per un lontano complea