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Seguì i due e li raggiunse nel crepuscolo inoltrato, rischiarato soltanto dai lontani bagliori delle lanterne. La ragazza indietreggiò, ma l’uomo lo fissò e poi alzò di scatto il bastone che impugnava, tenendolo fra loro come una barriera per scongiurare la minaccia o l’atto maligno. E questo era insopportabile, per Ged. La voce gli tremò un poco quando disse: — Credevo che mi riconoscessi, Veccia.

Nonostante tutto, Veccia esitò un momento.

—  Ti riconosco — disse, e abbassò il bastone e strinse la mano a Ged e l’abbracciò. — Ti riconosco! Benvenuto, amico mio, benvenuto! Che pessima accoglienza ti ho fatto, come se fossi uno spettro venuto ad aggredirmi alle spalle… Eppure ho atteso che venissi, e ti ho cercato…

—  Dunque sei tu il mago di cui Ismay è tanto fiera? Me lo domandavo…

—  Oh, sì, sono il loro mago: ma ascolta, lascia che ti dica perché non ti avevo riconosciuto. Forse ti ho cercato troppo. Tre giorni fa… Eri qui, tre giorni fa?

—  Sono arrivato ieri.

—  Tre giorni fa, per la via di Quor, il villaggio lassù sulle colline, ti ho visto. Cioè, ho visto un presentimento, o un’imitazione, o forse semplicemente un uomo che ti somiglia. Era davanti a me, e usciva dal villaggio, e ha svoltato a una curva della strada nello stesso momento in cui io l’ho visto. Ho chiamato e non ho ricevuto risposta; l’ho seguito e non ho trovato nessuno, e neppure un’ombra: ma il terreno era gelato. Era strano, e adesso che ti ho visto uscire così dall’ombra ho pensato di essermi inga

Anche Ged parlò sottovoce, per usare il vero nome dell’amico: — Non importa, Estarriol. Ma questo sono io: e sono lieto di vederti…

Veccia udì, forse, qualcosa di più della semplice gioia, nella sua voce. Non aveva ancora lasciato andare la spalla di Ged, e ora gli disse, nella Vera Favella: — Tu vieni angosciato dalla tenebra, Ged: eppure la tua venuta è gioia, per me. — Poi proseguì, nel suo hardese con l’accento delio stretto Orientale: — Vieni, vieni a casa con noi: stiamo andando a casa, è ora di lasciare l’oscurità… Questa è mia sorella, la più giovane di noi; e più graziosa di me, come puoi vedere, ma molto meno abile: si chiama Millefoglie. Millefoglie, questo è lo Sparviero, il migliore di noi e mio amico.

—  Nobile mago — lo salutò la ragazza, e chinò decorosamente la testa e si nascose gli occhi con le mani in segno di rispetto, come usavano fare le do

Si avviarono insieme nella sera, e mentre procedevano Ged osservò: — A Gont dicono che le do

Millefoglie scoppiò a ridere, e rispose apertamente: — È soltanto un harrekki. Non ci sono harrekki, su Gont? — Poi s’intimidì per un momento e si nascose gli occhi.

—  No, e neppure draghi. Questo essere non è un drago?

—  Una specie molto piccola, che vive sulle querce e mangia vespe e vermi e uova di passero: non crescono più di così. Oh, signore, mio fratello mi ha parlato spesso della bestiola che avevi tu, l’animaletto selvatico, l’otak… L’hai ancora?

—  No. Non più.

Veccia si voltò verso di lui, come se volesse fargli una domanda, ma non gli chiese nulla fino a molto più tardi, quando rimasero soli davanti al focolare di pietra della casa di Estarriol.





Sebbene fosse il mago principale di tutta l’isola d’Iffish, Veccia abitava a Ismay, la cittadina dov’era nato, e viveva con la sorella e il fratello minore. Suo padre era stato un mercante piuttosto ricco, e la casa era spaziosa e robusta, ricca di vasellame e di belle stoffe e di vasi di bronzo e d’ottone sugli scaffali e le cassapanche scolpite. Una grande arpa taoniana stava in un angolo della sala principale, e in un altro c’era il telaio intarsiato d’avorio su cui Millefoglie tesseva arazzi. Veccia, nonostante i suoi modi semplici e tranquilli, era un mago potente e un signore nella sua casa. C’erano due vecchi servitori dall’aria prospera, e il fratello, un ragazzo gioviale, e Millefoglie, svelta e silenziosa come un pesciolino, che servì la cena ai due amici e mangiò con loro ascoltando la loro conversazione e poi si ritirò nella propria stanza. Lì tutto era solido, sereno, sicuro; e Ged, guardandosi intorno nella stanza rischiarata dal fuoco, disse: — È così che dovrebbe vivere un uomo. — E sospirò.

—  Be’, è un buon modo di vivere — replicò Veccia. — Ce ne sono altri. Ora, ragazzo mio, dimmi, se puoi, ciò che ti è capitato dall’ultima volta che ci siamo parlati, due a

Ged glielo disse, e quando ebbe finito Veccia rifletté a lungo. Poi dichiarò: — Verrò con te.

—  No.

—  Penso che verrò.

—  No, Estarriol. Non è compito tuo, né è una tua maledizione. Io ho incominciato da solo questa strada maligna, e finirò da solo. Non voglio che altri ne soffrano: e tu meno di tutti, Estarriol, tu che all’inizio hai tentato di trattenere la mia mano dall’atto malvagio…

—  L’orgoglio è sempre stato il padrone della tua mente — disse sorridendo Veccia, come se stesse parlando di una cosa di poco conto. — Ora pensa: la ricerca è tua, sicuramente; ma se fallisce, non dovrebbe esserci un altro per avvertire l’arcipelago? Perché allora l’ombra avrebbe un potere spaventoso. E se invece la sconfiggerai, non dovrebbe esserci un altro che lo dica nell’arcipelago, affinché l’impresa venga conosciuta e cantata? So di non poterti essere utile, eppure credo che dovrei venire con te.

Ged non seppe resistere alla supplica dell’amico, ma disse: — Non avrei dovuto trattenermi qui, oggi. Lo sapevo, ma sono rimasto.

—  I maghi non s’incontrano per caso, ragazzo mio — replicò Veccia. — E dopotutto, come hai detto tu stesso, ero con te all’inizio del tuo viaggio. È giusto che ti segua fino alla fine. — Aggiunse legna al fuoco, e per un po’ rimasero entrambi a guardare le fiamme.

—  C’è qualcuno di cui non ho più saputo nulla dopo quella notte sulla collina di Roke, e di cui non ho avuto il coraggio di chiedere agli altri della scuola: Diaspro, voglio dire.

—  Non è riuscito a conquistare il bastone. Ha lasciato Roke quella stessa estate ed è andato nell’isola di O per diventare l’incantatore alla corte del signore, a Otokne. Di lui non so altro.

Tacquero di nuovo, guardando il fuoco e godendo il calore (poiché era una notte gelida) sulle gambe e sul volto, seduti sull’ampio bordo del focolare, con i piedi quasi tra le braci.

Infine Ged disse, sottovoce: — C’è una cosa che temo, Estarriol. E la temo ancora di più se verrai con me. Nelle Mani, all’estremità cieca della rada, mi sono scagliato sull’ombra: era a portata delle mie mani, e l’ho afferrata… ho tentato di afferrarla. E non ho potuto stringere nulla. Non ho potuto sconfiggerla. È fuggita, e io l’ho inseguita. Ma questo può accadere ancora. Non ho potere su quella cosa. Può non esserci né morte né trionfo, alla fine della ricerca: nulla da cantare, e neppure una fine. Forse dovrò trascorrere la mia vita correndo da un mare all’altro e da una terra all’altra in una vana e interminabile avventura in cerca di un’ombra.

—  Non sia mai! — esclamò Veccia, girando la mano sinistra nel gesto che scongiura le possibilità sfavorevoli a