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«Ohhh,» gemè Lizbeth.

«Per favore,» disse Harvey fissando Igan. «La prego, faccia qualcosa.»

«Si allontani,» ordinò Igan.

Harvey si alzò, fece due passi indietro. «Cos’ha?» chiese con un sussurro.

Igan lo ignorò, allacciò un nastro misuratore di enzimi al polso di Lizbeth, controllò i quadranti.

«Ma cos’ha?» chiese di nuovo Harvey.

Igan staccò lo strumento da Lizbeth, lo ripose nella borsa. «Nulla.»

«Ma è…»

«Perfettamente normale. La maggior parte delle do

«Ma non c’è qualche…»

«Si calmi!» Igan si alzò, affrontò Harvey. «Ora ha pochissimo bisogno di prescrizioni enzimiche. E presto potrà farne del tutto a meno. Sua moglie sta meglio di lei. E potrebbe tranquillamente andare in una farmacia anche adesso. Non verrebbe riconosciuta.»

«Ma allora perché…?»

«È l’embrione. Compensa i bisogni di sua moglie per proteggere se stesso. È un processo automatico.»

«Ma Lizbeth sta male!»

«Si tratta soltanto di un lieve squilibrio ghiandolare.» Igan sollevò la borsa. «Fa parte del vecchio processo di gestazione: l’embrione le dice di produrre determinate sostanze, e sua moglie ubbidisce. Ma questo causa qualche lieve scompenso nel suo sistema ghiandolare.»

«Lei non può fare nulla?»

«Certo che potrei. Tra un po’, a sua moglie verrà una fame terribile. Le daremo qualcosa che eliminerà la nausea, e poi la faremo mangiare. Ammesso che in questo buco ci sia del cibo.»

Lizbeth gemé. «Harvey?»

Il marito le si inginocchiò di nuovo accanto. «Sì, cara?»

«Mi sento malissimo.»

«Sii paziente, tra qualche minuto ti dara

«Ohhhh.»

Harvey sollevò uno sguardo rabbioso su Igan.

«Non appena possibile,» lo rassicurò il medico. «Non si preoccupi, è tutto normale.» Si girò e uscì dalla stanza.

«Cosa c’è che non va in me?» sussurrò Lizbeth.

«È l’embrione,» rispose Harvey. «Non hai sentito quel che ha detto Igan?»

«Sì. Ma mi fa male la testa.»

Igan ritornò con una capsula e un bicchiere d’acqua, si chinò verso Lizbeth. «Prenda questa. Attenuerà la nausea.»

Harvey la aiutò a sedersi sul materasso, la resse mentre Lizbeth inghiottiva la capsula.

Lizbeth fece un respiro tremulo e restituì il bicchiere. «Mi dispiace di dare tanto…»

«Non si preoccupi,» replicò Igan. Guardò Harvey. «È meglio portarla nell’altra stanza. Glisson ritornerà tra pochi minuti. Dovrebbe aver trovato del cibo e una guida.»

Harvey aiutò la moglie ad alzarsi, la sorresse mentre seguivano Igan nell’altra stanza. Là scoprirono che Svengaard era seduto sul materasso, e fissava le proprie mani legate.

«Stava ascoltando?» gli chiese Igan.

Svengaard guardò Lizbeth. «Sì.»

«Ha riflettuto su quello che è accaduto a Seatac?»

«Sì, l’ho fatto.»

«Non starà pensando di liberarlo,» obiettò Harvey.

«La sua presenza ci rallenta troppo,» disse Igan. «E non possiamo liberarlo.»

«Forse dovrei occuparmi io di lui,» ribatté Harvey.

«Lei cosa suggerisce, Durant?» chiese Boumour.

«Per noi rappresenta un pericolo,» stabilì Harvey.

«Ahh,» disse Boumour. «Allora lo lasciamo a lei.»





«Harvey!» esclamò Lizbeth. Si chiese se suo marito fosse improvvisamente impazzito. Era questa la sua reazione alla richiesta che gli aveva fatto di prendere Svengaard come proprio dottore?

Ma Harvey ricordava bene i gemiti di Lizbeth. «Se si tratta di scegliere tra lui e mio figlio, be’, è una scelta molto facile.»

Lizbeth gli strinse la mano, gli segnalò, «Cosa vuoi fare? Non puoi fare sul serio!»

«E poi, chi è lui?» chiese Harvey, fissando Igan. Ma segnalò a Lizbeth, «Aspetta. Osserva.»

Lizbeth ricevé il messaggio, non insisté.

«È un bioingegnere,» disse Harvey con voce che grondava disprezzo. «Un loro servo. Come può giustificare la sua esistenza? È un essere sterile, una vuota non-entità. Non ha futuro.»

«È questa la sua scelta?» chiese Boumour.

Svengaard sollevò lo sguardo verso Harvey. «Sta parlando di assassinarmi?» Il tono privo d’emozione della sua voce sorprese Harvey.

«Non ha niente da obiettare?» gli chiese.

Svengaard tentò di deglutire. Si sentiva la gola come fosse invasa da cotone secco. Guardò Harvey, misurando la corporatura massiccia, i possenti fasci di muscoli dell’uomo. Ricordò l’eccesso di istinto protettivo, quell’errore genetico che lo aveva reso schiavo della minima esigenza di Lizbeth.

«Perché dovrei?» replicò Svengaard, «quando la maggior parte di ciò che ha detto risponde a verità, e lei ha già deciso?»

«Come lo farà, Durant?» chiese Boumour.

«Lei cosa mi suggerisce?» replicò Harvey.

«Lo strangolamento potrebbe rivelarsi interessante,» ipotizzò Boumour, e Harvey si chiese se anche Svengaard riuscisse a percepire il tono gelido del Cyborg nella voce dell’uomo.

«Meglio rompergli il collo. È un sistema più rapido,» disse Igan. «Oppure si potrebbe usare un’iniezione letale. Nella mia borsa ne ho molte.»

Harvey sentì che Lizbeth tremava al suo fianco. Le diede un colpetto sul braccio, poi si liberò dalla stretta della moglie.

«Harvey!» esclamò Lizbeth.

Lui scosse la testa e si avvicinò a Svengaard.

Igan si affiancò a Boumour e rimase a guardare.

Harvey si inginocchiò accanto a Svengaard, strinse le dita intorno al collo del medico, poi si chinò verso l’orecchio rivolto dal lato opposto rispetto agli ascltatori. Con un bisbiglio che soltanto Svengaard poté udire, disse, «La vogliono vedere morta, e subito. La maniera non è importante. Lei che ne pensa?»

Svengaard sentì le mani dell’altro serrarsi sulla sua gola. Avrebbe anche potuto tentare, servendosi delle mani legate, di scostare quella dita dalla stretta ferrea, ma sapeva che sarebbe stato inutile. Era impossibile dubitare della forza di Harvey,

«Allora, la sua scelta?» sussurrò Harvey.

«Lo faccia, Durant!» lo esortò Boumour.

Svengaard si rese conto che alcuni secondi prima era stato rassegnato a morire, l’aveva perfino desiderato. Ma improvvisamente quel desiderio era scomparso.

«Voglio vivere,» bisbigliò.

«È questa la sua scelta?» sussurrò Harvey.

«Sì!»

«Durant, sta parlando con lui?» chiese Boumour.

«Perché vuole vivere?» domandò Harvey con tono di voce normale. Rilassò leggermente le dita, un sottile messaggio rivolto a Svengaard. Anche una persona non addestrata l’avrebbe compreso.

«Perché non sono mai stato vivo,» spiegò Svengaard. «Voglio vedere cosa si prova ad esserlo.»

«Ma come può giustificare la sua esistenza?» chiese Harvey e contrasse leggermente le dita.

Svengaard guardò Lizbeth, comprendendo finalmente le intenzioni di Harvey. Poi sbirciò in direzione di Boumour e Igan.

«Sono entrambi dei Cyborg?» chiese.

«Sì, ormai non possono più tornare indietro,» disse Harvey. «Sono privi di sentimenti umani… e anche se non sono stati trasformati del tutto, non fa alcuna differenza.»

«E allora come può essere sicuro che si prendera

Le dita di Harvey allentarono la stretta.

«Ecco il modo con cui potrei giustificare la mia esistenza,» dichiarò Svengaard.

Harvey allontanò le mani dalla gola di Svengaard, strinse le spalle dell’altro. Tra i due si stabilì una comunicazione istantanea, qualcosa che andava oltre le parole, un linguaggio fatto di carne su carne. Svengaard comprese di avere un alleato.

Boumour si avvicinò, chiese, «Sta per ucciderlo, oppure no?»

«Nessuno lo ucciderà,» ribatté Harvey.

«Allora cosa stavate facendo?»

«Risolvevamo un problema,» rispose Harvey. Continuò a tenere la mano sul braccio di Svengaard. Il medico si rese conto che, mediante quel semplice contatto, riusciva a comprendere l’intento di Harvey. Aspetti. Stia calmo. Me ne occuperò io.