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«Cosa c’è nel carico che ci circonda?» chiese Boumour.

«Un po’ di tutto,» rispose Igan. «Parti di macchinari, vecchie opere d’arte, oggetti sparsi. Abbiamo preso tutto quello su cui potevamo mettere le mani per farlo sembrare un carico assolutamente normale.»

Oggetti sparsi, pensò Harvey. Fu affascinato da quella definizione illuminante. Oggetti sparsi. Stavano trasportando pezzi di macchinari che forse non sarebbero mai stati costruiti.

Lizbeth allungò la mano a tentoni, strinse quella del marito. «Harvey?»

Premuroso, lui si chinò verso la moglie. «Sì, cara?»

«Mi sento… così… strana.»

Harvey lanciò uno sguardo disperato ai due dottori.

«Sua moglie starà benone,» lo tranquillizzò Igan.

«Harvey, ho paura,» disse Lizbeth. «Non ce la faremo.»

«Non è questo il modo di parlare,» la rimproverò Igan.

Lizbeth sollevò lo sguardo, si accorse che il bioingegnere la stava studiando dall’altro lato dello stretto vano. In quel viso severo, i suoi occhi brillavano come due strumenti chirurgici. Anche lui è un Cyborg? si chiese Lizbeth. Lo sguardo gelido di quegli occhi infranse il suo autocontrollo.

«Non mi importa nulla della mia vita!» sibilò. «Ma cosa ne sarà di mio figlio?»

«Farebbe meglio a calmarsi, signora,» la avvertì Igan.

«Non posso,» ribatté lei. «Non al pensiero che non abbiamo scampo.»

«Non dovrebbe preoccuparsi tanto,» tentò di rassicurarla Igan. «Il nostro autista è il miglior Cyborg disponibile.»

«Non riuscirà mai a farci sfuggire alle loro grinfie,» gemé lei.

«Farebbe meglio a star zitta,» disse Igan.

Harvey aveva ormai trovato un oggetto da cui proteggere la moglie. «Non le parli in quel modo!» esclamò.

Igan replicò in tono di sopportazione. «Non ci si metta anche lei, Durant. E abbassi la voce. Sa bene quanto me che durante il tragitto potremmo trovare blocchi stradali dotati di dispositivi di ascolto. In effetti, dovremmo parlare solo quando è strettamente necessario.»

«Stanotte niente riuscirà a sfuggire alle maglie della loro rete,» bisbigliò Lizbeth.

«Il nostro autista è poco più di un guscio di carne intorno ad un potentissimo computer,» li informò Igan. «È stato programmato esclusivamente per svolgere questo compito. Se non ci riesce lui, nessuno sarebbe in grado di farci passare.»

«Nessuno,» mormorò Lizbeth. Iniziò a piangere con singhiozzi convulsi che le scossero l’intero corpo.

«Guardi cosa le ha fatto!» accusò Harvey.

Igan sospirò, sollevò una mano che stringeva una capsula, la tese verso Harvey. «Le dia questa.»

«Cos’è?» chiese Harvey con voce sospettosa.

«Si tratta soltanto di un sedativo.»

«Non voglio un sedativo,» singhiozzò Lizbeth.

«È per il suo bene, mia cara,» tentò di convincerla Igan. «Se continua così, potrebbe rischiare di perdere l’embrione. È passato troppo poco tempo dall’operazione; dovrebbe rimanere calma e tranquilla.»

«Non vuole prenderlo,» disse Harvey. I suoi occhi sprizzavano rabbia.





«Deve farlo,» insisté Igan.

«No, se non vuole.»

Igan costrinse la sua voce a conservare un tono ragionevole. «Durant, sto solo cercando di salvare le nostre vite. Adesso lei è infuriato e…»

«Ha da

«Mi perdoni, se la ho offesa in qualche modo, Durant,» disse Igan. «Ma devo avvertirla che la sua attuale reazione è condizionata dal suo schema genetico. Lei ha un istinto protettivo maschile eccessivamente sviluppato. Sua moglie starà benissimo. Il sedativo è i

«E proprio lei afferma che noi abbiamo dei genotipi difettosi?» ribatté Harvey. «Scommetto che lei è uno Steri che non ha mai…»

«Basta così, Durant,» interve

Harvey guardò Boumour, notando il viso da elfo e il corpo massiccio. Il dottore appariva imponente e pericoloso, il suo volto era stranamente inumano.

«Non possiamo permetterci di litigare,» tuonò Boumour. «Potremmo essere vicini a qualche posto di blocco. E di sicuro sono dotati di dispositivi d’ascolto.»

«Noi siamo perfetti,» ringhiò Harvey.

«Forse ha ragione,» gli concesse Igan. «Ma entrambi state riducendo le nostre possibilità di fuga. Se a uno di voi cedono i nervi quando incontreremo un posto di blocco, siamo spacciati.» Questa volta tese la mano con la capsula verso Lizbeth. «La prenda, per favore. Contiene soltanto un tranquillante, del tutto i

Con esitazione, Lizbeth prese la capsula. Era fredda e gelatinosa. Le comunicò una sensazione di disgusto. Volle scagliare quella cosa contro Igan, ma poi Harvey le sfiorò una guancia.

«Forse faresti meglio a prenderla,» le disse il marito. «Per il bene del bambino.»

Lizbeth tese la mano, schiacciò la capsula contro la parte inferiore della lingua, poi la inghiottì. Se Harvey era d’accordo, quella era la cosa giusta da fare. Ma non le piacque l’espressione offesa e perplessa negli occhi del marito.

«Adesso si rilassi,» disse Igan. «Farà effetto molto in fretta — tre o quattro minuti e si sentirà perfettamente tranquilla.» Si sedette di nuovo e lanciò una rapida occhiata a Svengaard. La figura legata era apparentemente ancora priva di sensi; il petto si alzava e si abbassava con ritmo regolare.

Era ormai da molto tempo che Svengaard era sempre più cosciente della fame e del movimento che faceva rotolare il suo corpo contro una superficie solida. E il movimento comunicava anche una sensazione di velocità. Percepiva confusamente un odore di sudore umano, udiva un rombo di turbine. Quel suono stava iniziando a imporsi alla sua coscienza. Dalle palpebre pesanti filtrava una luce fievole. Sentiva di avere un bavaglio in bocca, le braccia e le gambe legate.

Svengaard aprì gli occhi.

Per un istante, non riuscì a mettere a fuoco le immagini, poi si scoprì a fissare un soffitto basso, illuminato da un minuscolo neon, al di sotto del quale si notava la griglia di un comunicatore accanto a una spia color rubino. Il soffitto gli sembrava troppo vicino e sulla destra aveva notato una forma confusa — una gamba tesa su di lui. Il neon emetteva un bagliore giallastro a malapena sufficiente a diradare l’oscurità.

La spia iniziò a lampeggiare freneticamente.

«Un posto di blocco!» sibilò Igan. «Silenzio, tutti quanti!»

Il velivolo iniziò a rallentare. Le turbine diminuirono i giri e il loro rombo si trasformò in un lamento. Infine l’hovercraft si fermò, mentre le turbine si spegnevano con un sussurro.

Lo sguardo di Svengaard esaminò in un lampo il luogo in cui si trovava. Alla sua destra, sopra di lui, una panca… su cui erano sedute due persone. Un bordo metallico sporgeva dal supporto della panca accanto la sua guancia. Con cautela, Svengaard mosse la testa verso il bordo, sentì attraverso la benda che la sua carne era entrata in contatto con esso. Spinse delicatamente la testa in avanti e il bavaglio si abbassò leggermente. Il bordo gli graffiò la guancia, ma Svengaard ignorò il dolore. Un’altra leggera spinta e il bavaglio si abbassò ancora di una frazione di millimetro. Svengaard si guardò intorno, vide sopra di lui, alla sua sinistra, il volto di Lizbeth. La do

Svengaard mosse ancora una volta la testa.

In lontananza, da qualche parte, si udirono delle voci: domande rivolte in tono tagliente, mormoni di risposta.

Le mani di Lizbeth smisero di coprirle la bocca, rivelando labbra che si muovevano senza emettere un suono.

Le voci adesso tacevano.

Lentamente, l’hovercraft iniziò a muoversi.

Svengaard voltò bruscamente la testa. La benda che teneva al suo posto il bavaglio si spezzò. Svengaard lo sputò via e urlò, «Aiuto! Aiuto! Sono prigioniero! Aiuto!»