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Gibson era intento a una tranquilla partita a freccette con il dottor Scott quando Bradley entrò con un modulo del rapporto segnalazioni.

«Adesso non mettetevi subito in agitazione» disse con la sua voce raffinata «ma vi avverto che siamo seguiti.»

Lo guardarono tutti a bocca aperta. Mackay fu il primo a riprendersi.

«Ti prego di essere più esplicito» disse con il suo solito tono lievemente cattedratico.

«C’è un razzo catapultato, sigla Mark III, che ci sta venendo dietro a rotta di collo. È stato lanciato in questo momento dalla stazione esterna e ci dovrebbe raggiungere fra quattro giorni. Vogliono che lo si acchiappi al volo mentre passa, con il nostro controllo radio, ma con la deviazione che avrà subito a questa distanza ci sta

«E dietro a chi sta correndo?»

«Credo che trasporti soccorsi sanitari urgenti. Guarda, dottore, dai un po’ un’occhiata qui.»

Il dottor Scott lesse attentamente il messaggio.

«Questo sì che è interessante. Pare che abbiano trovato un antidoto alla febbre marziana. Deve trattarsi di qualche siero: l’ha

«Insomma, in nome di Dio. si può sapere che cos’è un razzo sigla Mark III, per non parlare della febbre marziana?» esplose infine Gibson.

Ci pensò il dottor Scott a rispondere, prima che gli altri avessero avuto il tempo di aprire bocca.

«La febbre marziana non è in realtà una malattia tipica del pianeta Marte. A quanto pare, è causata da un organismo terrestre che siamo stati noi a portare lassù e al quale il nuovo clima è piaciuto più dell’antico. Si manifesta con sintomi molto simili a quelli della malaria…»

«Grazie mille. Adesso ricordo perfettamente. Ma, e il razzo?»

Hilton si inserì abilmente nella conversazione.

«È semplicemente un piccolo razzo automatico radiocomandato e dotato di una velocità terminale altissima. Viene impiegato per il trasporto di merci tra una stazione spaziale e l’altra, oppure per rincorrere le astronavi quando queste ha

«Perché i suoi minuscoli passeggeri avrebbero arricciato il naso a dover fare il viaggio tutti soli. Bisogna che predisponga per loro un po’ di colture perché restino in vita, e che faccia loro da balia.»

Gibson stava riflettendo intensamente.

«Io ero fermo nel convincimento che la vita su Marte fosse molto sana, sia dal punto di vista fisico sia da quello fisiologico.»

«Non bisogna prestare fede a tutto quello che si legge nei libri» rispose Bradley strascicando le parole. «Perché poi la gente si ostini ad andare su Marte è una cosa che non mi entra in testa. È piatto, freddo, pieno di miserabili piante rachitiche che sembrano uscite da un incubo di Edgar Allan Poe. Ci abbiamo buttato miliardi per non ricavarne neanche un centesimo. Io dico che chi ci va senza esserci mandato, dev’essere un po’ tocco nel cervello. Questo sia detto senza offesa per nessuno.»

Gibson si limitò a sorridere. Aveva imparato a fare una tara del novanta per cento almeno a tutto il cinismo di Bradley.

Norden lanciò al suo specialista in elettronica un’occhiata furibonda, poi disse: «Devo avvertirvi, caro Martin, che al giudizio di Bradley su Marte non va data troppa importanza poiché la sua opinione sulla Terra e gli altri pianeti non è molto diversa. Perciò non vi lasciate deprimere dalle sue considerazioni.»

«Neanche per sogno» disse Gibson ridendo. «Però c’è ancora una cosa che vorrei sapere.»

«Chiedi pure» sollecitò Norden, ansioso.



«Ecco, vorrei sapere se il signor Bradley ha anche di sé la scarsa opinione che manifesta per il resto dell’universo.»

«Ogni tanto» disse Norden. «Il che dimostra che qualche volta almeno il suo giudizio è esatto.»

«Toccato» mormorò Bradley, preso una volta tanto alla sprovvista. «Adesso mi ritirerò nei miei appartamenti a elaborare una risposta adeguata. Intanto, Mac, vuoi avere la cortesia di prendere le coordinate del razzo e farmi sapere quando entrerà in raggio?»

«Va bene» rispose Mackay in tono assente. Era più che mai immerso nella lettura di Chaucer.

4

Nei giorni che seguirono, Gibson fu troppo occupato dalle proprie faccende per interessarsi gran che alla vita sociale dell’Ares. Si era sentito rimordere la coscienza, come sempre gli capitava quando trascurava troppo a lungo il suo lavoro, perciò si era messo a scrivere accanitamente.

I suoi compagni di viaggio (da un pezzo Gibson non si considerava più come un passeggero privilegiato, e i suoi rapporti personali erano diventati amichevoli con tutti) ne rispettavano il volontario isolamento. In principio entravano nella sua cabina tutte le volte che passavano di là, a discorrere del più e del meno oppure a lamentarsi del tempo. Era stato molto piacevole, ma alla fine Gibson si era visto costretto a interrompere le continue visite dei compagni attaccando all’uscio della propria cabina il seguente cartello: Attenzione. Pericolo! Uomo al lavoro! Inutile dire che il cartello era stato subito infiorato di commenti ironici vergati nelle più varie calligrafie, ma era ugualmente servito allo scopo.

La macchina da scrivere era stata liberata dagli altri mille oggetti che l’avevano soffocata, e adesso occupava il posto d’onore nella minuscola cabina.

Dopo aver prodotto un paio di articoli per tener tranquilla Ruth, per un po’ almeno (aveva ricevuto altri tre cablogrammi la cui asprezza di tono era andata ogni volta salendo con un crescendo rossiniano), si recò in direzione nord, all’Ufficio Segnalazioni. Bradley accolse i fogli dattiloscritti con freddezza scoraggiante.

«Immagino che d’ora in poi questa storia si ripeterà tutti i giorni» disse tetro.

«Spero di si ma temo di no. Tutto dipende dalla mia ispirazione.»

«C’è un verbo sbagliato, proprio qui, all’inizio della pagina due.»

«Magnifico. È quello che ci vuole nel giornalismo.»

«A pagina tre hai scritto centrifuga mentre avresti dovuto dire centripeta.»

«Dal momento che mi pagano a battuta non vedo che differenza faccia. Le due parole sono lunghe uguali, no?»

«A pagina quattro ci sono due frasi di seguito che cominciano tutte e due con perciò.»

«Senti, vuoi spedirmi questa maledetta roba, oppure devo arragiarmi da solo?»

Bradley rise.

Pur seguitando a parlare, Bradley aveva cominciato a far scivolare i fogli nel vassoio del trasmettitore automatico. Gibson li guardava, affascinato, sparire a uno a uno entro le viscere della macchina, per emergere cinque secondi dopo entro il collettore radiotelegrafico. Gli faceva un effetto curioso pensare che in quel momento le sue parole stessero già percorrendo lo spazio.

Stava raccogliendo nuovamente i suoi fogli dattiloscritti, quando dalla selva di quadranti, interruttori e cruscotti che coprivano praticamente l’intera parete del minuscolo ufficio risuonò il brusio di un cicalino. Bradley si tuffò su un ricevitore e cominciò a eseguire con la massima rapidità movimenti incomprensibili. Da un megafono uscì a un tratto un fischio lacerante.

«Il missile è finalmente entro il nostro raggio» disse Bradley, «ma è ancora molto lontano… così, a occhio e croce, credo che ci mancherà per un buon centomila chilometri.»

«Che cosa si può fare per richiamarlo?»

«Ben poco. Ho acceso il radiofaro, e se il razzo riuscirà a captare le nostre segnalazioni modificherà automaticamente la rotta navigando a pochi chilometri dal nostro raggio.»