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Il locale chiudeva alle otto, e dieci minuti dopo le otto Shadow vide Sam Black Crow uscire in compagnia di una do

Le due do

Rimase a osservarle mentre si allontanavano lungo la strada e provò uno spasimo, come se dentro gli risuonasse un accordo in minore.

Era stato un bel bacio, rifletteva Shadow, però Sam non l’aveva mai guardato come stava guardando la ragazza con la coda di cavallo e non lo avrebbe mai più potuto fare.

«Che diavolo, mi rimane pur sempre il ricordo di Perù» disse tra sé mentre Sam si allontanava. «Di El Paso. I ricordi non me li toglie nessuno.»

Poi la rincorse e le infilò in mano le rose. Si allontanò velocemente perché non voleva che lei gliele restituisse.

Risalì la collina per tornare dove aveva parcheggiato la macchina e partì seguendo le indicazioni per Chicago senza superare mai il limite di velocità.

Era l’ultima cosa che doveva fare.

Non aveva fretta.

Passò la notte in un Motel 6. Svegliandosi la mattina si rese conto che i suoi indumenti puzzavano ancora della melma del lago. Li indossò pensando che comunque non dovevano durare troppo.

Pagò il conto. Cercò l’edificio di arenaria e riuscì a trovarlo facilmente. Era più piccolo di come lo ricordava.

Imboccò le scale camminando con calma, perché altrimenti avrebbe voluto dire che era ansioso di andare a morire, ma nemmeno troppo piano, perché la lentezza avrebbe significato paura. Qualcuno aveva spazzato e lavato le scale: non c’erano più i sacchi neri dell’immondizia, e invece che di verdura marcia adesso puzzavano di candeggina.

La porta rossa all’ultimo piano era spalancata: nell’aria aleggiava un odore di cibo stantio. Dopo un attimo di esitazione Shadow suonò il campanello.

«Arrivo!» gridò una voce femminile, e piccola come uno gnomo e straordinariamente bionda Utre

Shadow entrò. Tutte le porte delle stanze erano aperte (eccetto, naturalmente, quella di Polunochnaja Zarja) ed erano spalancate anche le finestre. Un venticello gentile soffiava lungo il corridoio.

«State facendo le pulizie di primavera» disse Shadow alla do

«Aspettiamo un ospite. Adesso però devi andartene davvero. Vuoi un caffè, prima?»

«Sono venuto per Chernobog» disse Shadow. «È arrivato il momento.»

Utre

«Lo so, ma l’unica cosa che ho capito veramente su come ci si deve comportare con gli dèi è che se stringi un patto poi lo mantieni. Loro contravvengono a tutte le regole che vogliono. Noi no. Anche se provassi a uscire di qui sono sicuro che i miei piedi mi riporterebbero indietro.»

La do

«Chi è?» gridò una voce dal fondo del corridoio. «Utre

Shadow percorse il corridoio e disse: «Buon giorno, Vechernjaja Zarja. Posso aiutarla?». Con un gridolino di sorpresa la do

La stanza era piena di polvere: c’erano strati di polvere su ogni superficie, di legno e di vetro, e i granelli sospesi nell’aria danzavano nei raggi di sole entrati dalla finestra aperta, disturbati da una raffica occasionale di vento e dal pigro ondeggiare delle tendine di pizzo ingiallito.

Shadow ricordava quella stanza, ci aveva dormito Wednesday. Era la camera di Bielebog.

Vechernjaja Zarja lo guardò con aria incerta. «Il materasso» disse. «Bisogna girarlo.»

«È facile» rispose Shadow. Prese il materasso e lo capovolse con facilità. Era un vecchio letto di legno, e il materasso di piume, che pesava quanto un uomo, ricadde sulla rete alzando un nuvolone di polvere.

«Cosa ci fai qui?» gli chiese lei in tono bellicoso.



«Sono venuto perché in dicembre un giovanotto ha fatto una partita a dama con un vecchio dio e ha perso.»

I capelli grigi di Vechernjaja Zarja erano legati in una crocchia stretta. Fece una smorfia. «Torna domani.»

«Non posso» rispose lui con semplicità.

«È il tuo funerale, allora. Vai a sederti. Utre

Shadow ripercorse il corridoio fino in salotto. La stanza, benché ora la finestra fosse aperta, era esattamente come la ricordava. Il gatto grigio che dormiva su un bracciolo del divano socchiuse un occhio, poi, poco impressionato da Shadow, ricominciò a ronfare.

Era lì che aveva sfidato Chernobog a dama, in quella stanza aveva puntato la sua vita per convincere un vecchio a prendere parte all’ultimo maledetto imbroglio di Wednesday. La brezza fresca che entrava dalla finestra aperta scacciava l’aria stantia.

Entrò Utre

«Ho rivisto Polunochnaja Zarja» disse lui. «È venuta a trovarmi nell’aldilà e mi ha dato la luna perché mi rischiarasse il cammino. Ha preso qualcosa da me ma non ricordo cosa.»

«Tu le piaci» rispose Utre

«Dov’è Chernobog?»

«Dice che le pulizie di primavera gli da

«Aspetterò.» Non c’era nessuna forza magica che gli imponesse di aspettare, Shadow ne era sicuro. Era una decisione sua. Doveva farlo, e se fosse stato l’ultimo gesto della sua vita, bene, era lì di sua spontanea volontà. Dopo di che basta obblighi, niente più misteri né fantasmi.

Sorseggiò il caffè caldo, nero e dolce proprio come lo ricordava.

Sentì arrivare dal corridoio una profonda voce maschile e si mise seduto più diritto. Fu contento di vedere che non gli tremavano le mani.

«Shadow?»

«Buongiorno» disse. Rimase seduto.

Chernobog entrò con una copia del "Chicago Sun Times" che appoggiò sul tavolino. Fissò Shadow, poi gli tese una mano con aria incerta. Si scambiarono una stretta.

«Sono venuto per il nostro accordo. Lei ha fatto la sua parte. Adesso tocca a me.»

Chernobog a

«Faccia pure con comodo. Io sono pronto.»

Chernobog sospirò. «Tu sei un ragazzo molto stupido, lo sai?»

«Credo di sì.»

«Sei un ragazzo stupido. E in cima a quella montagna hai fatto un ottimo lavoro.»

«Ho fatto quello che dovevo fare.»

«Può darsi.»

Chernobog si avvicinò alla vecchia credenza di legno e si chinò per sfilare da sotto una valigetta diplomatica. Toccò le chiusure che scattarono con un clic soddisfacente, sollevò il coperchio e prese dalla valigia un martello. Lo soppesò: sembrava una mazza in miniatura, con il manico di legno macchiato.