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CAPITOLO 13

Prima che lasciassero l’orbita, gli oblò erano pieni del turchese nebbioso di Urras, immenso e bellissimo. Ma la nave si voltò, e le stelle giunsero in vista, e Anarres tra queste, simile a una pietra rotonda e luminosa: in movimento eppure immota, scagliata da una mano che, descrivendo cerchi senza tempo, crea il tempo.

Mostrarono a Shevek tutta la nave: l’astronave interstellare Davenant. Era molto diversa dal mercantile Pensiero. Dall’esterno appariva bizzarra e fragile come una scultura di vetro e fil di ferro; non aveva l’aspetto di una nave, di un veicolo: non aveva neppure un’estremità anteriore e una posteriore, poiché non viaggiava mai in un’atmosfera che avesse consistenza maggiore di quella del vuoto interplanetario. All’interno era spaziosa e robusta come una casa. Le stanze erano grandi e intime, le pareti erano coperte di pa

Anche se i viaggi interstellari duravano soltanto alcune ore o alcuni giorni di nave, un’astronave a velocità prossima a quella della luce come questa poteva passare mesi ad esplorare un sistema solare, o a

Ma Shevek non li osservò molto, Terrestri e Hainiti, nel corso dei tre giorni in cui il Davenant, viaggiando a propulsione chimica a velocità convenzionali, effettuò il tragitto da Urras ad Anarres. Replicava quando gli parlavano; rispondeva volentieri alle domande, ma ne rivolgeva poche. Quando parlava, parlava da un silenzio interiore. Le persone del Davenant, soprattutto le più giovani, erano attratte da lui, come se egli avesse qualcosa che a loro mancava o se fosse qualcosa che esse desideravano essere. Parlavano molto tra loro, ma erano timide con lui. Egli non se ne accorse. Non badava quasi a loro. Badava soltanto ad Anarres, davanti a sé. Badava alla speranza inga

Il secondo giorno di viaggio, egli si trovava in sala comunicazioni, e parlava con Anarres per radio, prima sulla lunghezza d’onda del CDP, ed ora su quella del Gruppo dell’Iniziativa. Sedeva chino in avanti, e ascoltava o rispondeva con un fiotto della lingua chiara ed espressiva che era la sua lingua madre; a volte gesticolava con la mano libera, come se il suo interlocutore potesse vederlo, a volte rideva. Il nostromo della Davenant, un Hainita chiamato Ketho, che si occupava del contatto radio, lo osservava con attenzione. Ketho aveva passato un’ora dopo il pranzo, la sera prima, con Shevek, insieme con il comandante e altri membri dell’equipaggio; gli aveva chiesto, in un modo tranquillo, privo di pretese, Hainita, un mucchio di cose su Anarres.

Shevek si voltò finalmente verso di lui. — D’accordo, finito. Il resto può attendere finché non sarò a casa. Domani si mettera

Ketho a

— Sì, certo. Almeno, alcune, come dite?, notizie vivaci. — Dovevano parlarsi in iotico. Shevek lo conosceva meglio di Ketho, il quale lo parlava in modo molto corretto e rigido. — L’atterraggio sarà una cosa emozionante — continuò Shevek. — Un mucchio di nemici e un mucchio di amici si trovera

— Questo pericolo di aggressione, quando lei atterrerà — disse Ketho. — Certo i funzionari del Porto di Anarres pensano di poter controllare i dissidenti? Non le dira

— Be’, mi proteggera

— Sono lieto di poterlo condividere con lei — disse. — Sarò io a portarla giù con il battello d’atterraggio.

— Ottimo — disse Shevek. — Non tutti amerebbero accettare i nostri privilegi!

— Più di quanti lei non creda, forse — disse Ketho. — Se permetteste loro di accettarli.





Shevek, la cui mente non aveva badato molto alla conversazione, stava per lasciare la stanza; le ultime parole lo fecero fermare. Fissò Ketho, e dopo un momento disse: — Vuol dire che le piacerebbe scendere con me?

L’Hainita rispose con uguale franchezza. — Sì, mi piacerebbe.

— Il comandante glielo permetterebbe?

— Sì. Come ufficiale di una nave esploratrice, anzi, fa parte del mio dovere esplorare e investigare un nuovo mondo quando è possibile. Io e il comandante abbiamo esaminato la possibilità. L’abbiamo discussa con i nostri ambasciatori prima di partire. La loro opinione è che non debba venire fatta una richiesta ufficiale, dato che la politica del suo popolo è impedire agli stranieri di atterrare.

— Uhm — disse Shevek, poco amichevole. Si avvicinò alla parete di fronte e rimase immobile per qualche momento davanti a un quadro, un paesaggio Hainita, molto semplice e sottile, un fiume scuro che scorreva fra le ca

— Quando Anarres fu colonizzata, non c’erano altre razze conosciute. Per implicazione, quei termini comprendono tutti i forestieri.

— Così decisero i nostri amministratori, sessant’a

— Desidero vedere Anarres — rispose l’Hainita. — Ancor prima che lei venisse su Urras, già m’incuriosiva. Cominciò quando lessi le opere di Odo. Dive

— Allora è un desiderio suo… una sua iniziativa?

— Totalmente mia.

— E si rende conto che potrebbe essere pericolosa?

— Sì.

— Le cose… sono un po’ uscite di controllo, su Anarres. È ciò che mi dicevano i miei amici per radio. È sempre stata nostra intenzione… il nostro Gruppo, questo mio viaggio… scuotere un po’ le cose, svegliare, infrangere certe abitudini, indurre la gente a porsi delle domande. Comportarsi da anarchici! E tutto ciò è continuato mentre io ero via. Così, lei capirà, nessuno sa bene che cosa accadrà. E se lei atterrerà con me, altre cose ancora volera