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Il dottore aveva esaminato la sua spalla contusa (la contusione aveva sorpreso Shevek; la tensione e la fretta non gli avevano fatto comprendere bene ciò che era successo al campo di atterraggio, e non si era accorto della pietra che lo aveva colpito di striscio). Ora il dottore si voltò verso di lui, con in mano una siringa ipodermica.

— Non voglio — disse Shevek. Il suo iotico parlato era lento, e, come aveva notato nelle comunicazioni radiofoniche, pronunciato male, ma la grammatica era abbastanza giusta. Aveva più difficoltà a capire che a parlare.

— È vaccino per il morbillo — disse il dottore, professionalmente sordo alla richiesta.

— No — disse Shevek.

Il dottore si morsicò il labbro per un istante e poi disse: — Signore, sa che cos’è il morbillo?

— No.

— Una malattia. Contagiosa. Spesso assai grave negli adulti. Su Anarres non la conoscete; le misure profilattiche adottate nel corso del primo insediamento del pianeta sono riuscite a tenerla lontano. Su Urras è molto diffusa. Potrebbe ucciderla. Come, del resto, un’altra decina di infezioni da virus altrettanto comuni. Lei non ha acquisito la resistenza. Che mano usa, signore, la destra?

Shevek, automaticamente, scosse la testa. Con la grazia di un prestigiatore, il dottore gli infilò l’ago nel braccio destro. Shevek sopportò in silenzio questa e altre iniezioni. Non aveva né il diritto di diffidare né quello di protestare. Si era consegnato a quelle persone; aveva rinunciato al suo diritto di decisione, nato insieme con lui. Quel diritto se n’era andato, era caduto insieme con il suo mondo, con il mondo della Promessa, la pietra spoglia.

Il dottore riprese a parlare, ma egli non l’ascoltò.

Per ore o giorni esistette in un vuoto: un vuoto miserabile e secco, privo di passato e di futuro. Le pareti s’i

Si destò dopo un so

Le pareti spoglie erano piene di sorprese, pronte a rivelarsi a un tocco su un piccolo pa

Non poté lasciarla. La porta era chiusa a chiave.

L’incredulità iniziale di Shevek si trasformò in rabbia: una rabbia, un cieco desiderio di violenza, quale egli non aveva mai sperimentato in precedenza, in tutto il corso della sua vita. Cercò di spezzare la robusta maniglia della porta, picchiò le mani contro il metallo liscio, poi si voltò e colpì con il pugno il pulsante di chiamata, da usare, gli aveva detto il dottore, in caso di necessità. Nulla accadde. C’erano altri piccoli pulsanti numerati, di colori differenti, sul pa

Shevek superò tutte quelle voci: — Aprite la porta!

La porta si aprì, e il dottore fece capolino. Alla vista della sua testa calva, della sua faccia giallognola e preoccupata, la collera di Shevek si raffreddò e andò a ritirarsi in una sua tenebra interiore. Disse: — La porta era chiusa a chiave.

— Mi dispiace, dottor Shevek… una precauzione… contagio… per chiudere fuori gli altri…

— Chiudere fuori, chiudere dentro: il medesimo atto — disse Shevek, abbassando sul dottore il suo sguardo chiaro, lontano.





— Le precauzioni…

— Precauzioni? Devo star chiuso in una scatola?

— Il quadrato ufficiali — si affrettò a proporre il medico, come offerta di pace. — Ha fame, signore? Forse desidera vestirsi prima che andiamo nel quadrato.

Shevek osservò i vestiti del dottore; calzoni azzurri aderenti, infilati in stivali che parevano levigati e sottili come il tessuto; tunica color viola, aperta sul davanti e allacciata con alamari d’argento; al di sotto di questa, visibile soltanto al collo e ai polsi, una camicia di maglia d’i un bianco abbagliante.

— Non sono vestito? — chiese Shevek, alla fine.

— Oh, il pigiama può andare benissimo, dopotutto. Non ci sono formalità su una nave mercantile!

— Pigiama?

— Quello che lei indossa. Indumenti per dormire.

— Indumenti da indossare mentre si dorme?

— Sì.

Shevek batté le palpebre. Non fece commenti. Domandò: — Dove sono gli abiti che indossavo?

— I suoi abiti? Li ho fatti pulire… Sterilizzazione. Spero che la cosa non le dia fastidio, signore… — Andò a ispezionare un portellino che Shevek non aveva notato, e ne trasse un pacchetto avvolto in un foglio di carta di color verde chiaro. Svolgendo la carta, ne trasse il vecchio abito di Shevek, che pareva molto pulito e forse leggermente ridotto di taglia, accartocciò il foglio di carta verde, azionò un altro pa

— Che cosa succede alla carta?

— Carta?

— La carta verde.

— Oh, l’ho messa nella spazzatura.

— Spazzatura?

— Sì, come l’immondizia. La bruciano.

— Voi bruciate la carta?

— Oh, forse si limitano a gettarla nel vuoto. Non so. Non ho studiato medicina dello spazio, dottor Shevek. Mi è stato conferito l’onore di attendere alle sue necessità, signore, a causa della mia esperienza con altri visitatori extramondani: gli ambasciatori di Terra e di Hain. Io mi occupo delle procedure di decontaminazione e di acclimatazione per tutti gli stranieri che giungono in A-Io. Non che lei, beninteso, sia uno straniero nello stesso senso, naturalmente. — Rivolse un’occhiata timida a Shevek, che non riuscì ad afferrare tutte le parole, ma che riconobbe la natura ansiosa, diffidente, bene intenzionata sotto le parole.